Se l’Europa parla tedesco
Germania-Usa Lo scontro è aperto. La candidatura di Berlino al ruolo di grande potenza globale e di guida del Vecchio continente si fa di giorno in giorno più esplicita. Del resto la guerra commerciale è già in corso
Germania-Usa Lo scontro è aperto. La candidatura di Berlino al ruolo di grande potenza globale e di guida del Vecchio continente si fa di giorno in giorno più esplicita. Del resto la guerra commerciale è già in corso
Nel celebrare i 100 anni dalla nascita di John Fitzgerald Kennedy, tra le tappe più simboliche della sua presidenza non si è mancato di rievocare a profusione quel famoso discorso che si concludeva proclamando «Ich bin ein Berliner», «Io sono un berlinese». Nel dopoguerra il legame tra la Bundesrepublik e gli Stati Uniti è sempre stato strettissimo: sul piano politico, economico, militare e culturale. La sua attuale incrinatura appartiene a quel mondo sottosopra (gli anglosassoni protezionisti, i cinesi liberoscambisti) uscito dal cilindro di Donald Trump e dalle contorsioni della hard Brexit. Quanto solido e duraturo, questo mondo, non si sa, ma certo stupefacente.
Dopo il 1945 la Germania non solo aveva perso la guerra, ma cominciava a rendersi conto di quanto l’antiamericanismo culturale e ideologico che aveva nutrito gli anni che avrebbero condotto all’avventura imperialista della prima guerra mondiale, fosse poi confluito nel tragico successo del nazionalsocialismo. La democrazia postbellica, in un Europa indebolita e ancora frammentata, con la potenza sovietica alle porte, non poteva che aggrapparsi all’America. Che questa circostanza potesse non piacere ai movimenti della sinistra, e in particolare a quello contro la guerra vietnamita, è comprensibile. Ma non bisognava perdere di vista il fatto che una Germania antiatlantica non sarebbe stata affatto rassicurante. E non lo è neanche oggi.
Il problema dei nazionalismi è che si moltiplicano inevitabilmente come una mala pianta. E l’America first di Donald Trump non fa eccezione. Si possono certamente apprezzare alcuni dei contenuti che Angela Merkel e il suo ministro degli esteri Sigmar Gabriel difendono dall’arroganza del nuovo presidente americano, o la patente di «inaffidabilità» che gli hanno affibbiato, ma non si può sottovalutare il rischio che questa Europa, che «prende in mano il suo destino», finisca col parlare troppo tedesco.
La candidatura di Berlino al ruolo di grande potenza globale e di guida del Vecchio continente si fa di giorno in giorno più esplicita. Del resto la guerra commerciale è già in corso. E se le prime cannonate sono state sparate dalla Casa Bianca contro l’export tedesco, è da un pezzo che in Europa si mugugna contro l’enorme avanzo commerciale della Bundesrepublik che da questo orecchio non ci sente e si proclama irremovibile.
Le divisioni serpeggiano tra i paesi europei e non ci vorrebbe poi molto per farle precipitare. Di fronte a questa situazione la Cancelliera (la cui conferma alle prossime elezioni politiche appare sempre più certa) deve compiere una scelta. O imporre agli europei una disciplina imperniata sui principi economici e sociali dell’ordoliberismo tedesco che rafforzerebbe l’egemonia della Germania sull’Europa e il peso dell’Europa, guidata da Berlino, sullo scacchiere globale. Oppure mediare con i problemi di crescita economica e di sviluppo sociale degli altri paesi, sacrificando la perfezione della macchina da guerra dell’economia germanica e il suo valore di modello indiscutibile. Nella prima eventualità è difficile pensare che i cittadini europei accettino di farsi prendere per il collo in nome dell’export tedesco, tanto da pensare che, alla fin fine, Trump non ha del tutto torto. La promessa che i sacrifici porteranno in futuro sviluppo e benessere per tutti è divenuta, col passare degli anni, sempre meno credibile. Nel secondo caso, il governo di Berlino dovrebbe fare i conti con una opinione pubblica interna che il catechismo dei «conti in ordine» ha reso estremamente dogmatica. Inoltre la macchina economico-finanziaria tedesca, drogata dai suoi stessi successi, resisterebbe strenuamente a ogni correzione di rotta.
La squadra dei «falchi» non ne fa mistero e già vede Jens Weidmann, il governatore della Bundesbank, al posto di Mario Draghi alla Bce nel ’19. In cambio di una linea morbida, però, la Germania potrebbe ottenere una maggiore integrazione europea, meno esposta alle divisioni che la politica americana potrebbe determinare per via bilaterale. Un clima troppo soffocante all’interno della Ue ne favorirebbe sflacciamento o disgregazione e dunque debolezza sul piano globale.
Anche se, disgraziatamente, alla Casa bianca siede Donald Trump, uno scontro tra Berlino e Washington, che inevitabilmente indosserebbe i colori della «priorità nazionale», non può che indurre pericolosi processi degenerativi su entrambe le sponde dell’Atlantico.
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