Se la politica delle alleanze oscura la discussione sull’identità
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Se la politica delle alleanze oscura la discussione sull’identità

Sinistre Verso il Pd, che ha sempre fatto parte di partiti o coalizioni di sinistra, è necessaria un’azione politica se si vuole costruire un’alternativa popolare alla destra
Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 16 novembre 2022

Il dibattito precongressuale del Pd, complice l’accavallarsi della tornata di elezioni regionali, è incentrato sulla questione delle alleanze. Come se il gruppo dirigente, incapace di recuperare una bussola che ne orienti l’azione politica, esternalizzasse il problema. E, più o meno consapevolmente, delegasse il compito di recuperare una propria identità ed una propria funzione: diciamoci con chi andiamo e scopriremo chi siamo.

Che in questo giochi un ruolo il particolare calendario elettorale del Paese – complice l’instabilità che contraddistingue, per paradossale che possa sembrare, il sistema ultra-maggioritario applicato ai nostri enti locali, ogni anno si vota per qualcosa di importante – lo si è già detto. Se però ci si distacca dalla contingenza, ci si trova di fronte a due ulteriori fattori, di ben più vasta portata, che acuiscono le fibrillazioni nel campo democratico; entrambi portati a galla dall’esito delle elezioni del 25 settembre.

Il primo è la nascita, sui due fianchi destro e sinistro del partito tradizionalmente baricentro del centro-sinistra, di opzioni politiche altrettanto credibili, elettoralmente robuste e potenzialmente in grado di aggredirne la base di voti, ed oltretutto reciprocamente inconciliabili: il renzismo-calendismo ed il contismo. In questo panorama lo schema ulivista non è riproponibile; anche a causa del venir meno del collante anti-berlusconiano, sono inevitabili non solo una scelta tra due tipi di alleanza antitetici; ma anche, a scelta fatta, massicce concessioni all’alleato. Anzi, visti i rapporti di forza ed il trend elettorale, nel caso di alleanza con Conte sarebbero i Cinque Stelle nelle condizioni di fare alcune concessioni ai democratici, anche se nel loro caso pesa la storica debolezza in elezioni dove la posta in gioco non sia il governo nazionale.

C’è poi un elemento di ancor più lungo periodo, che il 25 settembre ha solo contribuito ad evidenziare con maggior forza, e cioè la perdita della propria funzione nello schema politico italiano, per cui è del tutto comprensibile il tentativo di ritrovarla schiacciandosi sul momento elettorale ed affidando al dibattito sulle alleanze la propria ragion d’essere.

Il Pd è stato il vero partito della globalizzazione reale, post-ideologico e post-conflittuale, che ha ravvisato nell’apertura dei mercati globali un fattore di progresso per l’intera società, e soprattutto per una classe media, espressione dei settori creativi della finanza e della cultura, cui si guardava come al perno della vita nazionale. Non solo. Essendosi il partito fatto portatore di una visione del paese (aliena alla storia del movimento operaio) che lasciato a se stesso non avrebbe potuto far altro che abbandonarsi a derive corporative se non anti-democratiche, i suoi dirigenti hanno sposato con foga da neofiti l’ideologia del vincolo esterno: non c’è possibilità, in base a questa ideologia, che il paese accetti la “cura” necessaria ad aprirsi ai mercati, se non ingabbiato in istituzioni sovra-nazionali che ne determinino il corso con disciplina di ferro.

Un primo grosso vulnus a questa impostazione è stato inferto già dalla crisi del 2008, che ha aperto la stagione, nella quale ci troviamo tutt’ora immersi, della crisi della globalizzazione capitalistica. Ma è stata la guerra russo-ucraina a dare il colpo di grazia. Perché fino a quando il vincolo esterno da interpretare è stato quello dell’Europa (qualsiasi cosa si intendesse con questo riferimento) il Pd aveva buone carte da giocare nel presentarsi come l’unico garante degli intricati nessi politico-sociali che ne favorissero l’implementazione in Italia. Ma la guerra ha cambiato tutto. Se il vincolo esterno da garantire è quello militare della fedeltà alla Nato, la destra ha tutte le carte in regola per farsene portatrice. In perfetta continuità col draghismo cui pure si erano formalmente opposti, i Fratelli d’Italia su questo non hanno lasciato spazio all’ambiguità.

Nel corso del dibattito sulla fiducia al governo di larghe intese, l’intervento di La Russa lo ha messo bene in chiaro. Mentre Meloni ha più volte evocato per il futuro del Paese il modello polacco: stretta reazionaria sui diritti e l’ordine pubblico accompagnati da una fedeltà a Washington ben oltre ciò che la prudenza consigliasse ad altre cancellerie europee. Risalta il parallelo tra la perdita della funzione autonoma dell’Europa sullo scacchiere geopolitico e la perdita di funzione del Pd – che dell’europeismo reale è stato il principale araldo.

La tentazione, tanto da parte dei 5Stelle quanto da parte della sinistra diffusa, sarebbe quella di crogiolarsi assistendo agli ultimi sussulti di un Pd salutarmente destinato alla dissoluzione (auspicata perfino da suoi autorevoli dirigenti). Tentazione legittima. Tuttavia la questione che rimane aperta è quella dell’elettorato democratico: ceti medi intellettuali, tecnici, quella che un tempo avremmo chiamato “aristocrazia operaia”. Una congerie sociale che ha sempre fatto parte di partiti o coalizioni di sinistra, e nei confronti della quale è necessaria un’azione politica, se si vuole costruire un’alternativa popolare alla destra.

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