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Se il trapper straniero è il nuovo «italiano vero»

Se il trapper straniero è il nuovo «italiano vero»

Suoni Per quanto criticata, al di là del suo valore estetico, la trap ha determinato un punto di rottura nella rappresentazione dei migranti. Nata in America venti anni fa, la trap ha stravolto le classifiche italiane in poco più di due anni

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 7 maggio 2019

Basi elettroniche taglienti – spesso troppo omologate, uso dell’autotune e suoni campionati di varia provenienza. La trap – che ha stravolto le classifiche italiane in poco più di due anni modificando l’asset discografico tradizionale – in realtà è un fenomeno musicale che esiste già da 20 anni, ha origini americane e si è radicata in Georgia. Non è un nuovo genere, ma è una declinazione del rap – per i detrattori un sottogenere – racconta vite di rapper con corollario di una buona dose di sessismo, droga, macchine extra lusso e vite spericolate.

Negli States riempie gli stadi – Lil Wayne, Migos, 2Chainz sono tra i nomi più in vista del settore – mentre in Italia il fenomeno viene sdoganato nel 2016 quando esplode il fenomeno Sfera Ebbasta – alias Gionata Boschetti da Cinisello Balsamo, che nei suoi pezzi racconta di esistenze difficili fatte di spaccio e violenza sotto i palazzoni popolari. Da Sfera Ebbasta in poi è il diluvio: Ghali, Tedua, Rkomi giusto per citare un’infinitesima parte del fenomeno su cui sovraintende in molti casi Charlie Charles, deus ex machina che segue e produce buona parte dei musicisti coinvolti.

Ma la trap aldilà del suo valore estetico – per quanto criticata, vituperata sovente non a torto per via di una iper produzione e un intervento massivo delle etichette che le impone suoni radio friendly – ha determinato una sorta di punto di rottura nella rappresentazione del fenomeno migratorio presentandone elementi innovativi. Non a caso molti artisti della generazione 2.0 che hanno stravolto classifiche e logiche di ascolto, sono figli di immigrati. O meglio, italiani di seconda o terza generazione che vedono nella trap – e nel rap – una modalità di racconto dove lo specifico tema dell’immigrazione viene ad affiancarsi con ritratti di periferia o storie di disagio urbano che si intrecciano con complicate relazioni.

Il caso di Ghali, figlio di genitori tunisini, rapper a 11 anni prima nel parco vicino casa (nel quartiere meneghino di Baggio), è emblematico. La passione per la musica trova sfogo davanti al computer così come consuetudine per le nuove star 2.0 dove alla chitarra si sono sostituite attrezzature elettroniche. Registra in camera, con il microfonino della webcam e Acid Pro (un software Daw professionale), un piccolo ep di otto pezzi masterizzati su cd e poi li regala nel quartiere, una originale forma di autopromozione. Affina lo stile ascoltando Joe Cassano, Inoki e Uomini di mare, dove lo stile verbale e gli incastri di rime sono la base della loro musica.

Ma se il successo di Ghali – centinaia di migliaia visualizzazioni streaming, una presenza radiofonica massiccia, concerti da sold out ovunque, è stata la consacrazione del genere, l’affermazione di Mahmood ha sdoganato la trap anche di fronte alla platea sanremese.

Ventisei anni da Cinisello Balsamo, madre italiana e padre egiziano, prima del successo è autore anche per Fabri Fibra, Marco Mengoni, poi un’apparizione a Sanremo giovani tre anni fa, un talent fino all’esplosione di febbraio con Soldi e che cercherà di replicare all’Eurofestival il 18 maggio. Ma l’altra faccia della medaglia del successo sul palco dell’Ariston ha scatenato commenti razzisti dopo l’intervento di Salvini che ha definito la sua vittoria frutto delle giurie degli esperti ‘radical chic’. «Da allora – ha spiegato Mahmood – i commenti razzisti sui social si sono sprecati . Ma il mio paese è la periferia sud di Milano dove sono nato». Non è il solo, anche Rancore – rapper romano di madre egiziana e padre italiano di origini croate – che ha goduto dell’esposizione Sanremese a fianco di Daniele Silvestri nel brano Argentovivo, subisce gli strali della politica. Certo Rancore è vaccinato sulle difficoltà di integrazione, e già in passato nel brano Il mio quartiere rappava: «C’è un mondo fuori, ma è fuori che fa spavento».

Sono testi di denuncia ma spesso si fanno beffe degli stereotipi e ridicolizzano le modalità leghiste e di un’opinione pubblica di rappresentazione dell’immigrato: ladro, truffatore che «ruba il lavoro agli italiani» e «stupra la donna bianca».

Sono liriche in cui entra un vissuto sociale e privato, difficile: la poetica di Ghali è intrisa di personale – come racconta a Roberto Saviano in un’intervista a Repubblica nel gennaio 2017: «Ricordo i posti di blocco… e io che abbasso la testa in macchina , mio padre che mi dice di non dire niente… un elicottero sopra casa nostra e mio padre pensa che sia lì per lui. Oppure la telecamera nascosta nella macchina parcheggiata sotto casa per vedere chi viene e chi va; la pistola nel vaso di fianco all’ascensore; gli spaventi. Poi, quando arrestano mio padre, con mia madre abbiamo vissuto tutto assieme, dalle camminate per andare a trovarlo in carcere alla sveglia ogni mattina con lei per aiutarla a cucinare, fino ai pacchi che portavamo a San Vittore sotto la neve e sotto il sole. A trentotto anni si è ammalata di tumore. Eravamo solo io e lei: mio padre era in carcere e io avevo otto anni. Altre sue amiche si sono ammalate e non ce l’hanno fatta ed è lì che ho iniziato a credere veramente in Dio, perché lei invece è guarita. Se non ci fosse stata lei io non sarei nulla…».

E contro i benpensanti – così come li definiva Frankie Hi Nrg – si scaglia in uno dei suoi brani più noti Cara Italia (2018: «Chi ha la mente chiusa ed è rimasto indietro. Come al Medioevo. Il giornale ne abusa, parla dello straniero come fosse un alieno. Senza passaporto, in cerca di dinero»). Fuori dagli stereotipi sempre Ghali canta: «O siamo terroristi o siamo parassiti/Ci vogliono in fila indiana tutti zitti».

Il caso Bello Figo è forse il più eclatante: con un lessico spesso ostentatamente volgare decostruisce lo stereotipo del migrante ladro ma anche di immigrato vittima.

Laioung è invece un’altra faccia della trap, il vero nome di questo italiano di seconda generazione – madre sierraleonese e padre pugliese – è Giuseppe Bockarie Consoli, il nome d’arte fonde le parole Lion e young, una sorta di ‘giovane leone’ – un’esperienza con le major dalla Sony per la quale ha pubblicato Ave Cesare; Veni, Vidi, Vici (2016), e poi il passaggio alla Universal che distribuisce il recentissimo Rinascimento. Nelle interviste non nasconde l’ombra del razzismo, ma ammette di sentirsi ora integrato: «Nella mia scuola di Ostuni – racconta – ero il meticcio, l’italo-africano, quello strano. E quando mi tagliarono i rasta per loro ero solo un marocchino. Al Sud non si tratta solo di razzismo, il problema è l’ignoranza. Ma oggi posso dire che in Italia mi sento a casa e sono finalmente orgoglioso di essere italiano. Sono un italiano nel corpo di un extracomunitario, ma anche un extracomunitario nel corpo di un italiano. E sono felice di rappresentare le seconde generazioni»..

La trap italiana – a conclusione – non cerca di replicare come mera imitazione l’originale statunitense, ma lo modella con modalità proprie. E soprattutto per gli italiani di ‘seconda generazione’ prova a descrivere un nuovo immaginario spingendosi avanti. Anche nella descrizione di un vissuto che va oltre lo stereotipo ma che evidenzia le contraddizioni di un Paese sul crinale pericoloso di un populismo e di un razzismo montante.

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