«Si apre la porta dell’aula: gli studenti vengono fatti uscire dalla classe e ammassati lungo un corridoio dove, uno alla volta, vengono sottoposti all’annusamento dei cani antidroga, che cercano lo stupefacente nei vestiti e nello zainetto». Questa scena è stata descritta con medesimo sdegno da Ludovico Arte, preside dell’Istituto Marco Polo di Firenze e da Franco Coppoli, insegnante di Terni, durante la Summer School di Forum Droghe e CNCA (coordinamento nazionale comunità di accoglienza), che quest’anno si è tenuta a Roma presso la Città dell’Altra Economia.
Uno sdegno operante quello dei due docenti, tanto da spingere entrambi a rifiutare una pratica “preventiva” da loro stigmatizzata come diseducativa e violenta, tanto da ricordare una scena possibile nell’Argentina della dittatura, magistralmente descritta nel film La notte delle matite spezzate di Héctor Olivera.
L’annuale momento formativo quest’anno ha avuto come titolo Just say know – Droghe: conoscere prima per ridurre i rischi dopo, dedicato alle forme possibili di comunicazione e confronto sulle droghe a scuola. «Alle medie era venuto uno della Guardia di Finanza e l’unica cosa che ci aveva detto era la procedura per ingoiare le bustine di cocaina, gli ovetti…quali sono le procedure per arrestare uno che le ha ingoiate. E poi ci aveva detto che molti giovani sono a favore, però guardando le statistiche di alcuni paesi che le hanno legalizzate sono aumentati gli incidenti stradali e poi se n’è andato». Le testimonianze degli studenti, raccolte nei mesi precedenti attraverso focus group, sono spietate: un paio di affermazioni gettate là, «e poi se n’è andato».
Anche mostrare competenze in materia di droghe è ritenuto sconveniente: «Un giorno c’è stata una presentazione sul doping, durante l’ora di motoria, e hanno dato un sacco di informazioni sbagliate, non esatte. Io non mi sono sentito di dire la mia perché avrei marcato male e strano, e poi non volevo fare la figura di quello che sa le cose». Sai le cose? Se il modello proposto si sintetizza con lo slogan coniato da Nancy Reagan “Just say no”, ovvero «tutto quello che devi sapere sulle droghe è che devi dire no», sapere è altamente sospetto, meglio «non marcare male».
II dialogo insegnanti/studenti spesso ruota attorno ai danni, presentandoli come inevitabili, così inchiodando i ragazzi a una condizione «inerme»: si enfatizza la «insensatezza del consumo» invece che riconoscerne le ragioni, la ricerca e, a volte, anche il disagio che ci sta dietro; si taglia fuori una parte fondamentale dell’esperienza, quella della significazione, poter nominare ciò che si cerca, effetti gradevoli inclusi; si ignorano l’auto-controllo e la regolazione, convincendoli – paradossalmente – di non aver alcuna competenza e alcuno strumento da mettere in campo per proteggersi. Una incapacitazione intenzionale, l’opposto di una prospettiva di empowerment. C’è un’alternativa? Nella Summer School sono stati presentati modelli di intervento innovativi, come l’approccio “Safety first” dei pedagogisti R. Skager e M. Rosembaum, centrato sul realismo circa le scelte e le esperienze dei ragazzi, in dialogo con loro e con i loro consumi, e sulla priorità della messa in sicurezza di chi usa.
Se va molto male, i cani in classe. Se va solo male, ecco le campagne antidroga, utili a propagandare la determinazione del governo a combattere la «droga», ad ammonire su rischi mai specificati (tutte le droghe fanno male) e indicare che, se ti penti e vai dove ti dico: «se ne può uscire». Una comunicazione basata sull’emotivo (le emozioni, quelle vere), come nelle migliori tradizioni della propaganda: però può andare male e il testimonial scelto, l’ex CT della Nazionale, se ne va in Arabia Saudita a vivere l’emozione vera di 90 milioni di euro esentasse.
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