Visioni

Scoprendo un’altra Africa nella decostruzione di Monk

Scoprendo un’altra Africa nella decostruzione di Monk

Note sparse L’opera complessa e affascinante del duo composto da Giancarlo Schiaffini e Sergio Armaroli. Brani che miscelano il free ai fantasmi blues del grande compositore

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 17 marzo 2021

Bisogna per forza ragionare sul titolo se si vuol dire qualcosa di quest’opera di Giancarlo Schiaffini e Sergio Armaroli. Il titolo è Deconstructing Monk in Africa (Dodicilune Records). Ma si potrà trovarci effettivamente una decostruzione di Monk? Gli autori di questa nuova composizione dicono che hanno «cercato di smontare la musica di Thelonious Monk». Chissà se smontare e decostruire hanno lo stesso significato. A occhio si può rispondere: non proprio. Smontare è un procedimento tecnico utile a decostruire. Perché in generale e in questo caso in particolare decostruire è come un desiderio di scorgere e far risaltare e far baluginare e rendere possibili tanti aspetti di un testo o di un fenomeno osservato. Osservato, indagato, elaborato, goduto. Ecco, allora sì: quest’opera è un’opera musicale di decostruzione.

MA NON BASTA ancora a capire il mistero (Misterioso è uno dei temi monkiani che qui appaiono). Non basta perché le mirabili tracce sonore di Monk sono citate, ma più che testi sono pretesti. Puri e semplici. Schiaffini e Armaroli avevano voglia di scrivere insieme un’ora circa di musica e l’hanno fatto servendosi di parecchi temi blues di Monk come alcuni dei materiali che occorrevano. Il lavoro è una cosa loro, la decostruzione c’entra fino a un certo punto. «Scrivere» si fa per dire. Nell’opera di scritto, cioè di fissato prima dell’atto di suonare, ci sono basi, volteggi, schizzi, allusioni indecifrabili o affettuosamente lineari, polifonie fascinose di suoni sintetici. Il resto sta sul crinale tra improvvisazione e composizione (nel senso di qualcosa che insegue un progetto): una pratica comune tra i jazzmen e un po’ meno comune tra i musicisti di «contemporanea colta».

POI C’È LA QUESTIONE Africa del titolo. I due autori hanno spostato in un’Africa reale e ideale la musica di Monk. In realtà hanno inventato una loro Africa sonora (con motivi etnici trattati spregiudicatamente) e l’hanno miscelata con il free più radicale, con gli scheletri o i fantasmi dei temi blues di Monk e infine con l’elettronica. Un’elettronica capricciosa, gradevole, solo a tratti metafisica. Schiaffini al trombone ha compiuto gli ennesimi prodigi di solista compositore, variando da certi episodi con sordina wah-wah alla Joe Tricky Sam Nanton del periodo jungle di Ellington a meditazioni sul grave in cui traspare tutta la cultura delle post-avanguardie del ‘900 e del 2000.

Armaroli, percussionista compositore con una vocazione per la sperimentazione anche estrema, si è munito di strumenti che gli stessi autori definiscono «falsamente etnici» come balafon, mbira, water drum, talking drum e si è abbandonato a giochi melodici e ritmici spesso voluttuosi (con rigore, la cosa che lui ama) e a un irresistibile impiego delle sovrapposizioni. Opera viva, opera magistrale. E non c’è un grammo di pastiche.

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