Rinviare, rinviare, rinviare. Sperando che dopo il voto qualcosa cambi perché, va giù piatto il sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti: «Se la litigiosità resta a questo livello dopo le elezioni non si va avanti». Rinviare, e nel frattempo scambiarsi ogni sorta di accuse, inclusa quella di voler rinviare, anche a costo di rinfacciare agli avversari comportamenti identici ai propri.

CAPITA INFATTI che tra l’ultima sparata di Matteo Salvini e il decorso dello spread si possa ipotizzare un rapporto di causa ed effetto. Il leghista è impegnato a recuperare il terreno perso con la gestione sbagliata del caso Siri. Scagliarsi contro i vincoli europei è strada tra le più sicure: «Se servirà infrangere alcuni limiti del 3% o del 130-140% tireremo dritti. Finché la disoccupazione non sarà al 5% spenderemo tutto quello che dovremo spendere e se qualcuno a Bruxelles si lamenta ce ne faremo una ragione». Aumento dell’Iva, prelievo sui conti correnti, patrimoniale? Mai: «Dovranno passare sul mio corpo». E anzi, già che ci si trova, il leghista promette la totale cancellazione dell’Iva sulle auto nella legge di bilancio.

A strettissimo giro lo spread arriva a 280 punti. Non che si possa parlare di balzo in realtà: prima della sparata veleggiava sui 277 punti base. Del resto aveva aperto a 276 e nel corso della giornata era andato anche oltre quota 280. Luigi Di Maio però non perde l’occasione: «Mi pare irresponsabile fare aumentare così lo spread parlando di sforamento del rapporto debito/Pil, che è ancora più preoccupante di quello deficit/Pil». Irresponsabilità condivisa. Di sforare il 3% aveva parlato lui pure, meno di una settimana fa. E anche lui aveva offerto al popolo votante le stesse garanzie di Salvini su Iva e patrimoniale, mettendo così nel conto, di fatto, un peggioramento del rapporto tra debito e Pil. La formula salvifica che propone, il recupero di 30 miliardi di euro dall’evasione fiscale, pur encomiabile, non pare infatti questione di settimane o mesi.

A SALVINI L’ATTACCO non dispiace affatto. In via Bellerio la sensazione diffusa è che gli attacchi concentrici, «Salvini contro tutti», portino consensi. Infatti rilancia: «Sforare il 3% non si può. Si deve». Di Maio, a propria volta, veste i panni del “responsabile”, utili quasi quanto la scoperta improvvisa dell’antifascismo per calamitare consensi a sinistra. Ovvio che così si attiri le frecciate e i sospetti, non meno strumentali dei suoi, di flirtare con il Pd. Accusa respinta, va da sé, con massima enfasi: «Il Pd è ancora Renzi, con Zingaretti davanti».

Impossibile dare conto della mole di addebiti che i due si sono reciprocamente rinfacciati nella giornata più rissosa della campagna elettorale. I cavalli di battaglia sono però ben visibili. I 5S imputano alla Lega quasi una defezione nella guerra contro la corruzione. I leghisti dipingono i pentastellati come il «partito del no» che blocca tutto.

Ieri però alle rispettive liste delle accuse se ne è aggiunta un’altra: quella di voler evitare il necessario chiarimento prima del prossimo consiglio dei ministri che dovrebbe tenersi lunedì prossimo. Di Maio giura di volere un vertice a tutti i costi, peccato che Salvini non gli risponda «perché ha preso il caso Siri sul personale». Giorgetti si affretta a concordare: «Un vertice prima del 20 sarebbe opportuno». Le fonti leghiste però smentiscono che siano arrivati inviti di sorta e i soci replicano bruschi: «Ma cosa vogliono, una richiesta in carta da bollo?».

IN REALTÀ CHE IL VERTICE si tenga è poco rilevante. La parola d’ordine è rinviare persino i decreti che parevano già cosa fatta, come lo Sblocca cantieri rimandato al dopovoto: pensare che a meno di una settimana dalle elezioni si possano sciogliere nodi come le autonomie o la Flat tax è poco realistico. Certo, a Salvini non dispiacerebbe se i 5 Stelle, nel consiglio dei ministri di lunedì, bloccassero il suo decreto sicurezza bis. Ma sarebbe anche quella solo campagna elettorale. Dunque si aspetta il voto come se potesse fare miracoli, a Roma e a Bruxelles. Ma non saranno le urne a sbloccare la situazione. E all’origine della nuova fiammata dello spread c’è in realtà proprio la sensazione sempre più marcata che questa maggioranza non sia più in grado di fare niente. Né ora né dopo il voto. Con o senza «litigiosità».