A Gerusalemme i lavoratori stranieri si incontrano il sabato alla Porta di Damasco e nelle viuzze della Città vecchia. Approfittano del giorno di riposo ebraico, lo shabbat, per visitare i luoghi santi e per lo shopping a prezzi più bassi. Sono rumeni, ucraini e di altri paesi ma in prevalenza asiatici. E non pochi di questi il venerdì, prima di andare al lavoro – come badanti, domestici, addetti alle pulizie – affollano il mercato palestinese di Musrara per acquistare il pesce a un costo più basso rispetto a quello del mercato israeliano di Mahane Yehuda. Seduti ai tavolini dei caffè popolari ci sono anche braccianti thailandesi che dal sud di Israele si spingono fino a Gerusalemme per qualche ora di vacanza. Da due settimane è raro incontrarli. Tanti di loro sono andati via o tentano di farlo. Secondo Galei Tzahal, la Radio dell’Esercito, migliaia di lavoratori asiatici hanno lasciato il paese, in maggioranza thailandesi impiegati nel settore agricolo. Nell’attacco di Hamas del 7 ottobre e nei successivi combattimenti tra esercito israeliano e uomini del movimento islamico intorno a Gaza, sono rimasti uccisi trenta thailandesi – assieme a quattro filippini e 10 nepalesi – che formano il gruppo più folto di braccianti agricoli stranieri nel sud di Israele. I thailandesi sono considerati come tra i più capaci nell’agricoltura. La loro assenza, perciò, si fa sentire mentre i prodotti attendono di essere raccolti e caricati su camion diretti ai mercati. Il marcato aumento dei prezzi di frutta e verdura nei supermercati è la conseguenza anche di questa situazione.

Per questo, scrive la stampa israeliana, il ministero dell’Agricoltura, in controtendenza alla politica del governo Netanyahu di isolamento e, di fatto, di punizione di tutti i palestinesi per l’attacco compiuto da Hamas, vuole che al più presto sia consentito l’ingresso a 8.000 manovali della Cisgiordania occupata da inviare subito ai campi coltivati e ai frutteti. Venerdì il ministero, facendosi portavoce delle aziende agricole, durante una riunione del Consiglio di sicurezza nazionale ha chiesto che siano ridati i permessi a donne palestinesi di tutte le età e agli uomini con più di 60 anni. Proposta che ha incontrato l’immediata e dura opposizione del ministro della Sicurezza e tra i leader dell’estrema destra, Itamar Ben Gvir, che ha descritto la presenza di lavoratori palestinesi nelle città israeliane durante la guerra come «un grave pericolo per la sicurezza nazionale». Ben Gvir preferirebbe impiegare israeliani nei campi ma il richiamo di oltre 300mila riservisti non lo permette. Così, contro la sua posizione, e con ogni probabilità quella di buona parte del governo Netanyahu, la proposta per l’ingresso dei braccianti palestinesi sarà votata in una prossima riunione del gabinetto. Altrettanto potrebbe avvenire anche nel settore alberghiero dove il lavoro palestinese è massiccio. Allo stesso tempo, scrive il Times of Israel, il ministero dell’agricoltura conta di far ritornare i thailandesi scappati via e di trattenere quelli che stanno pensando di lasciare Israele, offrendo un’estensione di due anni dei permessi di residenza quinquennali e aumenti del salario mensile di circa 500 dollari.

È possibile che questi «incentivi» inducano a restare alcuni o molti dei thailandesi intenzionati a tornare a casa. Partire, peraltro, per molti di loro non è facile perché devono prima saldare i debiti legati alle salate tariffe di assunzione – talvolta migliaia di dollari – che chiedono le agenzie di reclutamento. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) impone ai datori di lavoro di pagare le spese legate al reclutamento di lavoratori migranti dall’estero ma in Israele, come in molti altri paesi, queste «commissioni» ricadono sul lavoratore. A causa dei salari più alti, il costo del reclutamento per Israele costa 10 volte di più di quello per andare nel Golfo.