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Saša Sokolov, in un intimo carcere a scontare la colpa di eccesso di fantasia

Saša Sokolov, in un intimo carcere a scontare la colpa di eccesso di fantasiaErik Bulatov, «Orizzonte rosso», 1975

Grandi dialoghi/9 Fatto di un unico, ininterrotto dialogo, «La scuola degli sciocchi» è un affresco dolente dell’Unione Sovietica al tramonto, impelagata nei sofismi dei dogmi ideologici

Pubblicato più di un anno faEdizione del 6 agosto 2023

Ha circolato prima sui fogli dattiloscritti della letteratura clandestina d’epoca sovietica, che si sfaldano passando di mano in mano, poi a stampa negli Stati Uniti, un romanzo che è un unico ininterrotto dialogo. Si intitola Scuola di scemi (anche tradotto in Italia con La scuola degli sciocchi) e l’ha scritto nei primi anni Settanta, nel desolato universo verde dell’alto corso della Volga dove si era ritirato a fare il guardacaccia, Saša Sokolov, lo scrittore di più eclatante talento del secondo Novecento russo, capace di mantenere una vorticosa intensità di parola poetica in ogni singola pagina dei tre romanzi scritti in ottant’anni: dopo il suo esordio, che ha la fresca iridescenza del modernismo faulkneriano, seguirà l’apice dello sperimentalismo di Inter canem et lupum e il dedalo postmoderno di stili e generi della Palissandreide.

Scuola di scemi è un affresco tenero e dolente, laconico ma infinitamente pervasivo dell’intero «paese degli scemi», come la vox populi (e Brodskij) definivano l’Unione Sovietica al tramonto, aggrovigliata nei sofismi dei dogmi ideologi e nella ritualità grigia di una asfittica quotidianità. Sokolov prende a modello osmotico e insieme antitetico una vera scuola per bambini ritardati, le cui pareti evanescenti, dissolte già da una scrittura irrealistica per assioma, devono comunque mimare la vocazione autocostrittiva della nazione, e rappresentare un piccolo intimo carcere per il protagonista, la cui unica colpa è l’indomabile fantasia.

Per innescare un meccanismo narrativo senza eguali, per pagare un tributo quintessenziale al Novecento letterario attraverso il motivo del doppio, per denunciare la fragilità intrinseca dell’animo creativo, Sokolov elegge a narratore un io scisso, che senza soluzione di continuità si parla dentro, si apostrofa e lusinga, si usa come narratario e antagonista. La mai trascurata coerenza psicologica gli impone, sul piano della vaga referenzialità, di far proprio lo stigma sociale, inducendo nel lettore l’interpretazione predominante della schizofrenia (dove potrebbe condurre anche il frammento riportato sotto). Qui, il cardine ludico di ogni modernismo che si rispetti scioglie l’impasse già nel paratesto: il libro è dedicato «a Vitja Pljaskin, bambino debole di mente, mio amico e vicino»: non serve cercare prototipi, il ben dissimulato nome parlante recita a chiare lettere che ciò di cui si sta parlando è il ballo di San Vito.

Siamo di fronte a un portentoso procedimento lungo duecento pagine, grazie al quale si regge l’intero testo. La voce non è diluita, offuscata, come prassi nel flusso di coscienza: al contrario, la focalizzazione sul narratario, la costante sottolineatura della sua evidenza fisica, rendono il ritmo della narrazione sincopato, ne denudano il nervo, senza che per questo venga meno il disorientamento percettivo, lo scorrere disancorato dei tasselli della storia connaturato al flusso di coscienza.
Non sappiamo mai quale dei due segmenti della coscienza stia parlando, né, a rigor di logica, quando effettivamente si alternino: possiamo intuire dalla spesso fibrillante vis polemica la natura e la portata degli argomenti coinvolti nel serratissimo dibattito, ma non li riconduciamo mai a tratti caratteriali del/dei parlanti; anzi, avvertiamo la profonda unità interiore del protagonista senza nome. Le sue pulsioni, le sue paure, le sue candide e ingenue brame risultano così drammatizzate, dinamizzate; avvertiamo palpabilmente la tensione che generano e da cui sono generate, sia che si tratti dei contrasti con il padre arido e inflessibile, sia che ci si ingelosisca nei romantici castelli in aria rivolti a una professoressa, o si esca all’alba senza svegliare l’altro per entrare in un mondo ancora più onirico.

La tensione espressiva è costruita con mille mezzi: un profluvio di interrogative retoriche, l’altissima frequenza degli imperativi, delle onomatopee e delle interiezioni, il pronome personale di seconda persona sparpagliato ovunque e mantenuto in italiano, per orientare il lettore, anche quando soggetto, generando lo strano effetto di «sintassi straniera» che percepiamo usando le tre persone identiche del congiuntivo presente.

I motivi ricorrenti non sono nascosti tra le pieghe dell’intreccio, ma ostentati, come refrain, com’è logico che sia quando nella conversazione ci si sposta su un nuovo argomento: ecco allora ricorrere e poi dissolversi nel flusso narrativo il villaggio di dacie di estati interminabili, il «sistema delle pantofole» imposto a scuola, contro cui la coscienza parlante ostinatamente insorge, la minaccia del ricorso alla psichiatria, la gamba di legno della vicina, ovvero dell’orso della fiaba, che evoca sul parquet il suono raccapricciante e ammaliante del sesso ignoto, la misteriosa Landa del Succiacapre Solitario sull’altra sponda del fiume: fiume che, non a caso, è anche il Lete, a innescare il motivo trasversale dell’instabilità ontologica e dell’oblio, con personaggi ora vivi e ora morti. Intanto, il passato e il futuro si ritrovano congiunti nel vortice inarrestabile del discorso, perché «Tu stesso chi sei? Non lo sai. Lo saprai soltanto dopo, infilando le perline della memoria. Divenendone parte. Sarai tutto memoria».

Il procedimento ammette ampie digressioni in prima persona, quando una delle due voci si impone, facendo montare su tutte le furie l’altra, e ingaggia errabonde peregrinazioni sempre in condizione di grande vulnerabilità; oppure quando entrambe si sommano in un «noi» irto di inciampi allocutivi e dissidi interiori; o, in brani tra i più frizzanti, quando dialogano insieme con un terzo interlocutore, in particolare il loro idolo e mentore Pavel Norvegov, professore di geografia altamente anticonvenzionale, innescando siparietti degni di un Attimo fuggente alla sovietica.

Allo stesso tempo, però, il dualismo del principio narrativo si espande, contagiando gli altri personaggi, che si ritrovano scissi sia nel nome (mentre il protagonista non ne ha) che nell’essenza: il professore è Pavel ma si avvolge, anche nello stile, in un’aura biblica in quanto Saul; la vicina un po’ strega è anche la vicepreside strega dentro e fuori metafora; e entrambe si chiamano ora Tinbergen, ora Trachtenberg; l’amata professoressa è Elizaveta, o, in inconsueti diminutivi, Veta, Vetka, alla lettera ‘ramoscello’, e nell’ipostasi vegetale di ramoscello d’acacia la troviamo spesso immersa, mentre suo padre, noto biologo – Akatov per l’appunto – è anche Leonardo.

Come nel mito, al centro dell’arte di Sokolov c’è costantemente la transitorietà e trascendenza della natura umana, che può assumere le più mirabolanti forme vegetali. Qui, in Scuola di scemi, all’isolamento del protagonista che cerca se stesso come interlocutore è offerto infine un nome metamorfico, Ninfea, così come il fiume della fantasia e dell’oltretomba è – nell’epilogo – battezzato Vita: c’è in tutto il romanzo un forte afflato ecologico, le forze di una meravigliosa, tripudiante natura estiva si coalizzano nella figura mitico-simbolica del Levatore del Vento – di cui il postino ciclista Micheev-Medvedev è il messaggero e il professor Pavel-Saul il profeta – che con il suo impeto sbaraglia il conformismo e l’omologazione dell’universo sovietico.


Il dialogo
No-no, non ti dirò niente, non hai diritto di immischiarti nelle mie questioni private, non devi avere nulla a che fare con quella donna, non permetterti di provarci con lei, tu sei un cretino, sei una persona malata, non voglio vederti né sentirti, telefonerò al dottor Zauze, che ti riporti là un’altra volta, perché mi sono proprio stancato di te, mi disgusti, ma chi sei tu, perché mi tormenti con queste domande, piantala, ti consiglio di piantarla, altrimenti mi toccherà farti qualcosa, e non sarà una cosa bella. Non far finta di non sapere chi sono; se mi chiami matto, allora tu sei matto esattamente allo stesso modo, perché io e te siamo la stessa persona, ma tu ancora non vuoi rendertene conto, e se chiamerai il dottor Zauze, ti manderanno là assieme a me, e non potrai vedere quella donna per due o tre mesi, e quando ci dimetteranno, andrò da quella donna e le dirò tutta la verità su di te, che non hai l’età che dici di avere, ma tutt’altra età, e che studi alla scuola degli scemi non per tua scelta, ma perché in una scuola normale non ti ci hanno preso, tu sei malato non meno di me, hai una malattia orribile, sei quasi un demente, non sei in grado di imparare a memoria una sola poesia (…)

Traduzione di Mario Caramitti; nell’edizione Salani la traduzione è di Margherita Crepax

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