«Guardare al futuro ha un senso se lo riconnettiamo alla scoperta della nostra storia millenaria. La Civiltà nuragica è stata una delle prime ad affermarsi nel Mediterraneo e, nonostante l’enorme mole di studi e la valorizzazione dei principali siti, resta ancora molto da fare in termini di conoscenza e attrattività. Perciò sosterremo convintamente la battaglia per il riconoscimento della Civiltà nuragica quale patrimonio dell’Unesco».

Questa è la dichiarazione programmatica del candidato di FdI alla presidenza della regione Sardegna Paolo Truzzu, che – al di là di una spiccia retorica – non è in grado di presentare contenuti di sostanza in tema di patrimonio culturale. Sul valore identitario dell’archeologia punta anche la «rivoluzione gentile» di Renato Soru. D’altronde, il logo del suo movimento Progetto Sardegna rappresenta la planimetria stilizzata di un nuraghe a più torri. È bene tuttavia ricordare che tra il 2004 e il 2009, quando il fondatore di Tiscali governava l’isola, naufragò il progetto del museo Bètile, una struttura avveniristica – commissionata all’archistar Zaha Hadid – che nel lungomare di Cagliari avrebbe dovuto mettere in dialogo i manufatti dell’arte nuragica con la produzione artistica contemporanea.

Per la gestione dei beni culturali l’alleanza di centrosinistra (presumibilmente influenzata dai 4 partiti indipendentisti che ne fanno parte) s’ispira al modello della regione siciliana, che ha competenza esclusiva in materia di conservazione delle antichità e delle opere artistiche. L’esempio scelto è però imbarazzante, visto che dal 2014 i parchi archeologici e i musei siciliani sono stati «consegnati» ad amministratori locali che hanno affossato la tutela e portato avanti una valorizzazione spregiudicata, asservita agli interessi della politica e dei privati. L’auspicata riforma dello Statuto speciale, che liberi la Sardegna da logiche centraliste, o l’ampliamento dei poteri normativi in base all’articolo 5 del medesimo ordinamento, dovrebbero basarsi dunque su presupposti più congrui.

Anche l’istituzione di una Scuola superiore di archeologia della Sardegna per formare quadri che garantiscano l’utilizzo di nuovi poteri regionali sul patrimonio non può costituire la soluzione per smarcarsi da strategie di stampo colonialista. Il richiamo al sito di Mont’e Prama – secondo la Coalizione Sarda poco esplorato e oggetto di estenuanti trattative con organi statali – non è del tutto inopportuno, sebbene cavalchi l’onda mediatica e alimenti il complottismo di una nutrita schiera di fantarcheologi.

Il rafforzamento degli uffici regionali preposti al controllo del patrimonio archeologico è anche l’obiettivo di Sardegna Unita, raggruppamento di centrosinistra a trazione Pd e M5s. In questo caso non si aspira al distacco dallo Stato ma al consolidamento e allo sviluppo del rapporto con le Soprintendenze. Il campo largo che sostiene la candidata Alessandra Todde propone di ripensare altresì il ruolo dell’«affollato» assessorato della Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport, inefficace nella distribuzione equa dei fondi, finora indirizzati quasi esclusivamente a siti archeologici con economie già avviate.

Mentre non si può che apprezzare il riferimento implicito alla Convenzione di Faro per un maggior coinvolgimento della società civile nelle politiche per i Beni culturali, demagogico appare il piano di mappatura digitale dei siti che, tramite un’app, dovrebbe diffondere la «memoria collettiva globale» di un territorio circoscritto e incoraggiare la visita fisica.

Colpisce che le coalizioni di centrosinistra non si siano espresse sulla necessità di contrastare lo scempio di quel paesaggio che il comitato Sardegna verso l’Unesco definisce «immutato» dall’Età del Bronzo e che, invece, è sempre più alterato dall’installazione di pale eoliche in prossimità dei monumenti e in aree di interesse storico-archeologico non indagate. A deludere è anche la mancanza di una prospettiva di ampio respiro, tesa a conferire alla Sardegna una dimensione internazionale e un ruolo di rilievo nell’area mediterranea che non si identifichino soltanto con la caccia ai turisti stranieri e con l’agognato «marchio» Unesco.