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Saraa Karimi, il cinema come voce, dall’Afghanistan

Saraa Karimi, il cinema come voce, dall’Afghanistan

Intervista La regista afghana, prima presidente donna dell’Afghan Film Organisation, racconta attraverso il suo film Hava, Maryam, Ayesha la solitudine delle donne di fronte al sistema patriarcale islamico

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 22 ottobre 2022

A distanza di più di un anno dalla caduta di Kabul, la terza in quella che è stata definita «la guerra più lunga» Sahraa Karimi torna a parlare del cinema afgano e delle donne nella 9° edizione di Conversazioni sul futuro (dal 13 al 16 ottobre, Lecce), festival promosso dall’associazione «Diffondiamo idee di valore» che attraverso una pluralità di argomenti e linguaggi cerca di raccontare il mondo contemporaneo e quello che verrà. La regista afghana, prima presidente donna dell’Afghan Film Organisation, racconta attraverso il suo film Hava, Maryam, Ayesha la solitudine delle donne di fronte al sistema patriarcale islamico, dove la maternità è un bisogno di affetto, la ricerca della propria femminilità, una questione di vita o di morte.

Guardando la filmografia afghana nelle narrazioni emerge sempre di più il punto di vista delle donne; per esempio «Osama» di Siddiq Barmak o «Come pietra paziente» di Atig Rahini. Che direzione sta prendendo il cinema afghano?
Le storie di guerra, sviluppo, conflitto sono sempre delle storie legate alle donne perché sono quelle che soffrono di più. Però ci sono due pericoli in questo: primo c’è una binarietà e semplificazione, cioè le donne sono rappresentate o come eroine o come vittime; secondo c’è il rischio che concentrandoci solo sulle donne perdiamo le storie dei bambini e degli uomini. Credo che nei prossimi dieci anni le storie che usciranno dall’Afghanistan racconteranno la guerra, il conflitto e i diritti umani. Quando avremo raccontato tutto questo potremmo passare a una produzione artistica e sperimentale. Pensando alla struttura cinematografica, credo che abbiamo bisogno di più registi che abbiano un approccio creativo per raccontare le storie dell’Afghanistan. Adesso con la caduta di Kabul non possiamo più lavorare nel nostro paese ed è difficilissimo creare una cinematografia in esilio, non possiamo fare un cinema afghano con soldi esteri, non nostri. Il cinema ha sempre a che fare con i soldi e gli interessi connessi. Ora stando all’estero non posso raccontare storie dell’Afghanistan, ma posso riportare le relazione tra i rifugiati afghani e l’Europa, siamo concittadini e dovremmo conoscerci meglio. La mia responsabilità quindi è di mostrare agli europei le storie degli afghani in Europa, come viviamo questa esperienza.

Per molti anni ha vissuto lontano dall’Afghanistan, quando ha deciso di tornare a Kabul e di girare questo film?
Avevo diciassette anni quando mi sono trasferita in Slovacchia, dove ho studiato cinema. Nel 2012 avevo finito i miei studi, fatto tanti corti e mi sono chiesta perché restare in Europa e girare storie che non mi appartengono. Così ho deciso di tornare in Afghanistan, ma è stato difficile perché è un paese molto patriarcale, dove le donne non sono rispettate soprattutto se istruite. Ho visto tutti gli alti e bassi e le complessità, però volevo essere lì per contribuire allo sviluppo del mio paese e raccontare le sue storie. Mi sono interessata molto alla maternità in Afghanistan dove le donne per essere accettate dalla società sono costrette ad avere figli; per me questo non è giusto e volevo raccontare la maternità come metafora di libertà. Nel film le protagoniste vivono la maternità in modo diverso: per Hava è uno stile di vita, ma la gente intorno a lei non si interessa dei suoi sentimenti. Tutti vogliono che le donne diventino madri però non si occupano di loro, una volta compiute le tue responsabilità non esisti più. Maryam cerca di avere un bambino, ma lei e il compagno si stanno lasciando e sa che il figlio sarà un grandissimo problema. Essere una madre single in Afghanistan è difficilissimo e il marito prenderà il bambino perché le donne non hanno il diritto di custodia dei propri figli. Mentre Ayesh è una teenager che ha avuto un rapporto prima del matrimonio ed è stata abbandonata dal fidanzato. Per lei questa gravidanza è un fatto di vita o di morte.

Il film, oltre ad analizzare il rapporto delle donne con il patriarcato e la loro femminilità, parla di aborto, com’è stato accolto il film nel suo paese?
Dopo la prima a Venezia siamo partiti in Afghanistan dove abbiamo fatto venti giorni di proiezioni e le reazione sono state divisorie: le donne si sono sentite rappresentate, qualcuno finalmente ha raccontato la loro esperienza; invece gli uomini hanno detto che questo film cerca di convincere le donne a non essere madri e non avere figli. A me piace questo scontro, volevo creare questo dibattito. Lo vedo come la mia responsabilità, la responsabilità dell’artista di creare una discussione, di buttare la palla al centro e vedere cosa succede. Potevo restare in Europa e fare qualsiasi cosa, ma volevo tornare in Afghanistan perché so che il cinema ha un grande potere. Credo che il cinema debba essere uno specchio per la società, dove la gente possa vedere le proprie storie .

Il tuo modo di girare ricorda il cinema verità, pieno di dettagli sulle azioni dei personaggi o lontano come se la macchina da presa fosse un osservatore esterno, come nelle scene girate in città. Con quale macchina da presa e troupe hai lavorato?
Ho osservato l’Afghanistan per dieci anni analizzando quello che vivevo e vedevo, quindi volevo ricreare questa prospettiva, come se la macchina da presa fossi io. Questo è un film low budget e dovevamo risparmiare tempo e denaro soprattutto perché era un periodo molto difficile, ogni giorno c’erano esplosioni e non sapevo se mentre giravamo poteva esserci un’esplosione. Era molto rischioso e non avevamo attrezzature, abbiamo portato tutto dall’Iran. Le riprese sono state fatte nelle periferie e abbiamo chiesto alla gente se potevamo girare nelle loro case, non avevamo la possibilità di mettere tutto in scena. Per esempio il negozio di oro dove entra Ayesha è vero, le persone all’interno non sono degli attori; oppure nelle scene girate nella città abbiamo detto ad Ayesha di passeggiare mentre la seguivamo.

Molte rivoluzioni sono partite dalle voci di tante donne, cosa pensa della rivoluzione in Iran?
Appoggio assolutamente, anche attraverso i social, quello che stanno facendo le donne iraniane. Credo che nei paesi islamici fondamentalisti come l’Iran e l’Afghanistan, le donne possono veramente portare avanti la rivoluzione. Nel ventunesimo secolo non puoi costringere le donne a essere schiave. Ormai sono quarant’anni che queste donne lottano contro il Mullah, sono cose veramente basiche quello che chiedono come non portare l’hijab e avere la libertà di fare quello che vogliono. L’hijab è il segno del potere dei governi fondamentalisti e loro hanno paura di perdere questo potere; questa è una battaglia importante.

Ho letto che sta insegnando presso il Centro Sperimentale di Cinematografia in Italia, come le sembra questa esperienza?
Quando ero giovane il mio sogno era di studiare al Centro Sperimentale e mai avrei pensato che un giorno avrei insegnato lì; è stata un’esperienza fantastica. Sono arrivata con tanto dolore e loro mi hanno accolto, in particolare Marta Donzelli. Può essere che ho perso il mio paese, la mia casa, però non ho perso la mia vita professionale e questo grazie all’Italia e al Centro Sperimentale. Mi sento molto a casa, l’Italia è molto simile all’Afghanistan per il clima, il cibo e magari anche un po’ per il sistema patriarcale; anche qui gli uomini ti guardano per strada e senti la pressione. Però vedere che anche in Europa c’è ancora il sistema patriarcale, mi spinge a creare e fare i miei film; stare in Italia mi sta dando una nuova vita creativa e delle nuove opportunità per affrontare le stesse tematiche.

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