Sara Creta, un documentario dall’inferno libico
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Sara Creta, un documentario dall’inferno libico

L'incontro Nell'ambito delle serate del Cinema in piazza, a Roma, la giornalista e documentarista ha presentato il suo lavoro sui centri di detenzione in Libia
Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 9 luglio 2022

L’attesa a tratti senza fine dei migranti rinchiusi nei centri di detenzione in Libia, si è palesata durante la serata di ieri a Roma nella rassegna «Il Cinema In Piazza» organizzata dal Piccolo America. L’occasione si è concretizzata con la visione di Libya: No Escape From Hell documentario prodotto da Arte e Magneto e realizzata dalla giornalista e documentarista Sara Creta presente alla proiezione. Assieme a lei sul palco anche uno dei protagonisti del documentario, il sudsudanese Michael Magok, oltre ai rappresentanti delle due organizzazioni che hanno reso possibile il tutto, ovvero Medici Senza Frontiere con un suo operatore e Claudio Paravati, direttore del mensile Confronti.

Il titolo del film spiega egregiamente l’intento dell’autrice nell’incontrare ed analizzare il repressivo sistema di detenzione libico che svolge il gioco sporco per la connivente e volutamente distratta Europa. La questione migratoria, in tutta la sua drammaticità, viene raccontata con delicatezza, consapevolezza e rispetto per chi vive quei drammi. Libya: No Escape From Hell non punta né sullo stupore della carne e del sangue, né tantomeno sulla drammaturgia estetica della morte violenta. Utilizza invece il tempo e lo spazio per rappresentare in modo schietto la deprivazione costante e continuata a cui i migranti vengono sottoposti: la perdita progressiva di ogni diritto ascrivibile al genere umano è indiscutibile. E si tocca con mano attraverso le parole tanto semplici quanto dirompenti di uno degli intervistati, il sudanese N’Doka, ora riparato in Svezia, quando per descrivere la sua situazione e quella dei compagni di fuga che lo circondano, afferma che «…Ci vedi, è chiaro che noi siamo persone che hanno perso la speranza». Il lavoro della regista si muove con abilità tra giornalismo d’inchiesta e documentazione, mettendo a frutto un’esperienza consolidata nel tempo.

Quando hai scelto di dirigere il tuo lavoro verso la violazione dei diritti umani ed in che modo sei arrivata ad occuparti della Libia?
Mi occupo da tempo di politiche migratorie. Dieci anni fa mentre ero a Melilla, al confine tra Marocco e Spagna, ho assistito alla stessa violenza che tutti abbiamo visto raccontata la scorsa settimana. Stavo documentando le conseguenze degli abusi e raccoglievo le testimonianze dei feriti, quando vidi morire Clément, un ragazzo camerunense respinto dalla Spagna e bastonato con mazze di ferro dalla polizia marocchina. Clément, dopo essere stato arrestato e pestato, morì sotto i nostri occhi in quanto l’ambulanza che doveva trasferirlo all’ospedale di Nador non giunse in tempo. Quella esperienza mi ha segnato enormemente. Da quel giorno non ho mai smesso di occuparmi di confini, di ‘muri’ tangibili, di violazioni sulla pelle degli «altri». Ed oggi, dietro l’eufemismo del «controllo delle frontiere della UE», si stanno sviluppando pratiche invisibili ed illegali: deportazioni in mezzo al deserto, maltrattamenti, torture. La necessità di raccontare cosa sta succedendo in Libia nasce da questo, dalla volontà di adottare una nuova prospettiva sul rapporto tra politica ed estetica. Questo apre la strada a una nuova concettualizzazione della dimensione visiva della vita politica e alla possibilità di utilizzare tracce fotografiche per leggere forme diverse di relazioni di potere e dominio. Sia in Libia che nei confini europei le frontiere sono diventate violente e le convenzioni internazionali non vengano rispettate.. E così, raccolgo, archivio ed espongo frammenti visivi che interrogano.

Come nasce «No Escape»?
Era il maggio 2019, stavo lavorando ad un documentario sulla rivoluzione sudanese. In Libia era scoppiata l’ennesima guerra ed i migranti erano bloccati nei centri di detenzione, a pochi chilometri dal fronte. Ho iniziato a ricevere da loro immagini e video di protesta filmati all’interno dei centri, oltre a quelli dei combattimenti in cui erano obbligati ad imbracciare le armi. Ho iniziato a riflettere sul ruolo di queste immagini e sulla politica di visibilità che donne e uomini bloccati in Libia stavano reclamando.. Quelle immagini, che vediamo anche nel documentario, ci interrogano. Ci chiedono di definire cosa è estetico e cosa diventa politico. In questa dicotomia, in questo paradigma della cultura visuale, ci si chiede di relazionarci con chi viene fotografato e ritratto, attivando uno sguardo pratico che diventa atto politico e rivoluzionario. In quel momento ho deciso che serviva lavorare ad un documentario che potesse racchiudere questi interrogativi. Il film nasce dalla necessità di interrogare il modo in cui le politiche europee si definiscono, chi le prepara, le delinea e le implementa e di utilizzare la facoltà dell’immaginazione civile per ripensare ai potenziali confini. L’Europa decide di allontanare i migranti in Libia e di farli scomparire: una vera e propria «sparizione organizzata», frutto di specifiche scelte politiche. Questa complice passività di fronte alla sospensione dello stato di diritto per certe categorie è inquietante. Ecco perché il documentario vuole interrogare sulle responsabilità, non solo morali, ma anche giuridiche e politiche di queste dinamiche.

I centri di detenzione sono al centro della narrazione..
La mia presenza nei centri ed a bordo delle vedette della guardia costiera libica, è stata al contempo necessaria e tanto difficile da organizzare, in quanto va ricordato che si tratta di operazioni finanziate e coordinate dall’Italia e dall’Europa. Qualche anno fa avremmo potuto dire di non sapere. Oggi no. Negli ultimi cinque anni sono state oltre 82.000 le persone intercettate in mare e riportate in Libia. Molte di queste spariscono dopo lo sbarco. Ufficialmente, i centri di detenzione sono made in Italy. Nei documenti europei si legge che dal 2003 il nostro governo ha finanziato «la costruzione di un campo per immigrati illegali, in linea con i criteri europei, da costruire nel Nord del Paese» e di «un programma di voli charter per il rimpatrio di immigrati illegali dalla Libia verso i paesi d’origine, che comporta un sostanziale contributo economico».

Nella finanziaria 2004-2005, secondo un rapporto europeo, l’Italia ha previsto «uno stanziamento speciale per la realizzazione di altri due campi nel Sud del Paese, a Kufra e Sebha». Oggi, i centri di detenzione sono nelle mani delle milizie che controllano il paese e che vedono negli immigrati una fonte di denaro veloce. Tali gruppi armati sono responsabili di crimini contro l’umanità e hanno goduto e godono della quasi totale impunità, coperti dal governo libico di unità nazionale. Sono entrata nei centri con la macchina fotografica, uno strumento che con la sua presenza induce carcerieri, carnefici e vittime ad una ridefinizione della relazione di potere, tra chi controlla e chi documenta. Ho osservato senza interrompere, perché nel film volevo cercare di decriptare la logica delle politiche della UE in Libia, e di come i rifugiati esistono in quello che Peter Nyers chiama uno «spazio umanitario depoliticizzato», dove il loro movimento e il loro aspetto sono controllati dagli organismi delle Nazioni Unite, che hanno il compito di trovare una «soluzione durevole» al ‘problema’ del rifugiato, come i programmi di reinsediamento o integrazione.

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