Uscire da una guerra è più difficile che entrarci, si sa. Lo scoprì a proprie spese il presidente Lyndon Johnson quando l’offensiva vietnamita del gennaio 1968 mostrò a tutti gli americani che il loro governo mentiva quando parlava di «luce in fondo al tunnel».

La guerra non si poteva vincere e, in marzo, Johnson rinunciò a presentarsi per un secondo mandato. L’eredità del disastro toccò a Richard Nixon, eletto nel novembre successivo.

ANCHE NIXON mentiva, ovviamente. Fu eletto millantando di avere un piano segreto per porre fine alla guerra, piano che non esisteva.

L’unica soluzione, ventimila morti dopo, fu quella di contrattare con i vietnamiti ciò che Henry Kissinger chiamava un «decente intervallo» fra il ritiro delle truppe americane e il crollo del regime fantoccio sudvietnamita. I marines se ne andarono nel 1973 e il 25 aprile 1975 la riunificazione del paese di Ho Chi Minh era compiuta.

Come scrive l’Economist, la lezione che chiunque abbia letto un libro di storia dovrebbe trarre dal caso Vietnam (poi ripetuto in Afghanistan) è che occorre capire per tempo quando le guerre non si possono vincere e cercare di evitare danni maggiori.

Nel caso dell’Unione europea non ci sono giovani polacchi, tedeschi e italiani sul fronte ucraino ma che la guerra delle sanzioni sia stata persa è evidente a tutti, anche se lo dice soltanto il settimanale inglese. Ursula von der Leyen è un ex ministro della difesa tedesco che queste cose dovrebbe saperle.

L’INVASIONE RUSSA iniziata il 24 febbraio ha avuto come risposta uno tsunami di retorica, insieme a una valanga di armi e denaro inviati a Kiev.

Lo strumento principale, le “sanzioni durissime” contro Putin, i suoi collaboratori e perfino le sue presunte fidanzate all’estero aveva però una debolezza fondamentale: l’Europa ha più bisogno del gas russo di quanto la Russia abbia bisogno della nostra valuta pregiata.

Il motivo è molto semplice: i governi di tre quarti della popolazione mondiale non aderiscono alle sanzioni e sono ben contenti di comprare il gas di Mosca, a cominciare da Cina e India che, insieme, hanno tre miliardi di abitanti.

Non solo: i meccanismi speculativi del mercato energetico fanno sì che il prezzo del gas sia andato alle stelle nelle ultime settimane e quindi la Russia guadagna di più pur vendendo di meno.

In realtà il problema non sono i forzieri della Banca centrale russa ma l’interdipendenza fra le economie, quella cosa da tutti magnificata per 40 anni e soprannominata “globalizzazione”.

INTERDIPENDENZA significa che Germania e Italia, per esempio, possono essere la prima e la seconda potenza industriale europea grazie al basso prezzo di indispensabili materie prime come gas e petrolio, fornite appunto dalla Russia. Da Brema a Sassuolo è pieno di impianti che divorano energia: alluminio, vetro, piastrelle. Fabbriche che ai prezzi attuali possono soltanto chiudere, o comunque fermarsi in attesa di tempi migliori.

Interdipendenza significa anche garantire ai lavoratori e alle loro famiglie una casa tiepida d’inverno e una doccia calda settimanale a un prezzo ragionevole.

Se invece le bollette superano la metà dello stipendio medio può succedere di tutto (i prezzi del riscaldamento e della benzina sono oggi l’equivalente di quello che era il prezzo del pane ai tempi di Renzo e Lucia, o di Maria Antonietta regina di Francia, se preferite).

Naturalmente i governi fingono di fare qualcosa, dal cercare nuovi fornitori nel mondo al chiedere ai cittadini di mettersi la maglietta di lana in casa per tutto l’inverno.

La difficoltà con i produttori è che non sempre sono disponibili già dal prossimo ottobre: potremo sì comprare gas liquefatto dagli Stati Uniti (a qualsiasi prezzo) ma per usarlo occorreranno rigassificatori che non si sa bene dove ormeggiare, a meno di non mandare la brigata Folgore a presidiare Piombino e Ravenna.

Quindi abbiamo perso: sarebbe saggio prenderne atto e chiedere conto ai responsabili delle loro scelte: la Commissione europea, il governo italiano, i governi degli altri 26 membri dell’Unione.

L’ALTERNATIVA è seguire ancora per mesi o anni un alleato ingombrante come Zelensky, marginalmente meno corrotto del presidente sudvietnamita Van Thieu o di quello afghano Karzai.

Sì, perché un’altra cosa che tutti i governi europei fingono di non sapere è che le guerre costano: in vite umane, in danni all’economia ma anche in corruzione. Corruzione su una scala impensabile in tempo di pace perché i conflitti mobilitano somme enormi e, soprattutto, mettono a tacere chi osa avanzare dei dubbi.

I sudvietnamiti l’altroieri, gli afghani ieri e in parte gli ucraini oggi rivendono volentieri le armi che ricevono gratis. E non bisogna dimenticare che gli alleati in prima linea possono e vogliono manipolare l’opinione pubblica dei loro protettori, impedendo qualsiasi ragionamento razionale, qualsiasi trattativa diplomatica, qualsiasi iniziativa di pace.