Lavoro

Sandra Burchi: «Non Una di Meno: lo sciopero è creativo, inventiamo nuove forme»

Sandra Burchi: «Non Una di Meno: lo sciopero è creativo, inventiamo nuove forme»Non una di meno in piazza – LaPresse

Intervista Sandra Burchi, femminista, ricercatrice e autrice di «Ripartire da casa. Lavori e reti dallo spazio domestico»: «Non Una di Meno ripete il gesto femminista, lo estende e con l'otto marzo rinnova il concetto di lavoro. Oggi più che mai c’è bisogno di un reddito di autodeterminazione. Il problema non è solo quello di comprare il pane e il latte, ma anche le rose»

Pubblicato più di un anno faEdizione del 8 marzo 2023
Sandra Burchi
Sandra Burchi

Sandra Burchi, femminista e ricercatrice e autrice tra l’altro di «Ripartire da casa. Lavori e reti dallo spazio domestico» (Franco Angeli) oggi il movimento transfemminista Non Una di Meno organizza lo sciopero del lavoro produttivo e di quello della riproduzione sociale. Cosa significa?

Significa comporre due pezzi del lavoro che di solito restano separati anche se non riguardano solo le donne, ma tutti. Significa mettere insieme il lavoro tradizionale con tutta un’altra serie di lavori invisibilizzati. Significa estendere l’idea di lavoro a tutto quello che serve per vivere. Significa cambiare il significato del concetto di «lavoro» includendo anche un «lavoro emotivo» che serve a resistere a vite precarizzate, a forme di sfruttamento pesanti ma anche sottili. Il lavoro qui è lo sforzo di rovesciare quotidianamente le sofferenza e la tristezza, il senso di insicurezza. Si ripete così il gesto femminista e lo si estende a livello globale.

Le donne sono le più precarie e le meno occupate in Italia. In mancanza di un posto fisso è difficile scioperare, almeno nelle forme conosciute. Esistono altri modi?

È il problema che affronta Non Una di Meno. Il bello dello sciopero di oggi è concepirlo come un processo creativo. Non c’è più un solo modo di scioperare. Bisogna creare nuove forme. Nessuna pratica, vecchia e nuova, è trascurata. Non Una di Meno parla di sciopero del consumo, dal lavoro domestico, o anche vestire in un certo modo quando non è possibile davvero astenersi dal lavoro. Si può performare lo sciopero partecipando alle manifestazioni di oggi. E si può scioperare anche dal genere.

Cosa vuol dire?

Si possono prendere le distanze dalle aspettative di genere, cioè da quelle cose che ci si aspetta che facciamo sulla base del genere che ci viene riconosciuto, prescritto o assegnato socialmente. Questo è veramente un momento politico importante. Qui lo sciopero rivela il suo contenuto di liberazione e di scoperta. Da oggi posso scoprire di essere dentro un incastro che non desidero più di tanto e lo metto in discussione, lo supero.

La rivendicazione di un «reddito di autodeterminazione» presente nella piattaforma dello sciopero è una risposta alla trasformazione del «reddito di cittadinanza» in una forma ancora più ridotta di «misura di inclusione attiva» («Mia»)?

Certamente. Ed è la contestazione della divisione tra chi è ritenuto «occupabile» e chi è poverissimo. È una distinzione artificiale. Noi sappiamo che il 48% dei percettori del reddito di cittadinanza sono lavoratori poveri. Sappiamo anche che il lavoro povero non riguarda solo forme di lavoro non qualificato. In una regione come la Toscana dove vivo, il rischio di «povertà relativa» riguarda anche chi ha titoli di studio alti, preparazioni qualificate. Le donne sono spesso prese in mezzo a lavori anche ben fatti ma non adeguatamente retribuiti. Chi lavora sul reddito di base lo dice da tempo: lavorare non basta.

Per il Rapporto Plus 2022 dell’Inapp in Italia una donna su 5 è fuori dal mercato del lavoro dopo la nascita di un figlio. Un terzo per licenziamento o mancato rinnovo del contratto. Come definirebbe questa posizione delle donne?

Come un paradosso. Non c’è una forza lavoro femminile «debole», ma c’è una competenza e un orientamento delle donne a fare delle cose che possiamo chiamare «lavoro» che però questo tipo di società non riconosce.

Perché?

C’è una disponibilità verso il lavoro, ci sono le competenze che le donne maturano e una difficoltà ad accedere la mondo del lavoro. Qui c’è lo scarto. Qualcosa non si aggiorna nel sistema che governa gli equilibri di genere e il lavoro. Si torna a considerare la forza lavoro femminile come negli anni Sessanta quando veniva chiamata di «riserva». I movimenti femministi non restituiscono però l’immagine convenzionale delle donne perennemente in difficoltà o solo in un orizzonte di bisogno. È il contrario.

Richieste di lavoro che vanno deserte, dimissioni volontarie. Che cosa sta accadendo?

Sta tornando l’attenzione sulle condizioni materiali dell’esistenza e dunque sul lavoro, sul salario e sul reddito. La povertà non è più un tema sociologico astratto. Sono sempre più persone a non arrivare alla fine del mese. Ci sono forme di «NO» che vanno lette come le «Grandi dimissioni», per esempio. E ci sono i «SI» sugli striscioni sui quali si scrive: «Vogliamo una vita bella». Il problema non è solo quello di comprare il pane e il latte, ma anche le rose.

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