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Salari in stagnazione da 50 anni, negli Usa non resta che licenziarsi

Salari in stagnazione da 50 anni, negli Usa non resta che licenziarsiCercasi manodopera in un ristorante del Greenwich Village a New York – Ap

Terremoti economici Scioperi a macchia di leopardo in tutti i settori e una valanga di dimissioni volontarie, ben 4,3 milioni lo scorso agosto. È crisi dell'impiego e delle assunzioni negli Stati uniti. «Nessuno lo chiama sciopero generale - dice l’economista Robert Reich - ma pur non essendo organizzato è in realtà collegato agli scioperi organizzati che scoppiano in tutto il paese: troupe televisive e cinematografiche di Hollywood, lavoratori della John Deere, minatori di carbone dell’Alabama, lavoratori della Nabisco, lavoratori della Kellogg, infermieri in California, operatori sanitari a Buffalo...»

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 16 ottobre 2021

Tutti fanno finta di non accorgersene, ma negli Stati uniti c’è lo sciopero generale. Si vede poco perché è uno sciopero generale, anzi un rifiuto del lavoro, strisciante: nel mese di agosto ben 4,3 milioni di lavoratori americani si sono licenziati. Significa che il 3% dell’intera forza lavoro degli Stati uniti se n’è andata volontariamente, la percentuale più alta mai registrata da quando il Bureau of Labor Statistics ha iniziato a registrare questo dato.

NELL’APRILE SCORSO si erano toccati i 4 milioni ma il fenomeno era stato attibuito al sostegno per le famiglie creato dall’amministrazione Biden poche settimane prima e ora scaduto. Quattro milioni di lavoratori su un totale di 154 milioni sembra poco ma in realtà è una cifra enorme: il sistema di sicurezza sociale americano è magro e fragile, quindi chi si licenzia spesso ha diritto a un’indennità di disoccupazione solo per poche settimane.

«Nessuno lo chiama sciopero generale – dice l’economista Robert Reich – ma pur non essendo organizzato è in realtà collegato agli scioperi organizzati che scoppiano in tutto il paese: troupe televisive e cinematografiche di Hollywood, lavoratori della John Deere, minatori di carbone dell’Alabama, lavoratori della Nabisco, lavoratori della Kellogg, infermieri in California, operatori sanitari a Buffalo…».

QUESTO RISVEGLIO dell’attivismo dopo 50 anni di stagnazione dei salari reali è il frutto della convergenza di vari fattori, in particolare del fatto che le offerte di lavoro, sempre in agosto, erano 10,4 milioni, quindi per la prima volta in parecchi decenni i lavoratori hanno un potere contrattuale leggermente maggiore: nell’ultimo anno i salari medi sono aumentati del 4,6% e molti di loro pensano che, se non oggi, tra due o tre mesi un lavoro si troverà.

Ma c’è anche un elemento più profondo e importante, il rifiuto del lavoro, o almeno di questi lavori malpagati e pericolosi: «Non possono continuare trattarci così» dice Laura Hagen, una delle 10mila lavoratrici e lavoratori in sciopero della John Deere, il colosso mondiale dei trattori.

Gli scioperi sono a macchia di leopardo, mentre le dimissioni investono tutti i settori ma in particolare infermieri e altri operatori sanitari (224.000), impiegati nei fast food (178.000), insegnanti (124.000). Tutte categorie che non solo hanno sofferto più duramente per la pandemia (assieme ai lavoratori della logistica) ma che sostanzialmente si identificano con gli working poors, cioè lavoratori a cui un contratto stabile e un orario pieno non bastano per mantenere la famiglia.

BASTI PENSARE che il salario minimo federale oggi è 7,25 dollari l’ora, immutato dal 2009, e aveva raggiunto il suo massimo in termini di potere d’acquisto nel 1968, quando era equivalente a 11,91 dollari di oggi. Da allora sono falliti tutti i tentativi dei democratici di aumentarlo. In 29 stati e in alcune città ricche, come Seattle e New York, il salario minimo locale è 15 dollari l’ora ma la lotta per estendere questo trattamento a livello nazionale è ancora lunga e incerta.

LE USCITE MASSICCE da fabbriche e uffici sono ancora più sorprendenti perché la partecipazione al mercato del lavoro negli Stati Uniti è già piuttosto bassa: in settembre il 61,7% degli adulti lavorava, o era ufficialmente disoccupato, mentre in Italia la percentuale corrispondente era il 64,1% e, tradizionalmente, l’Italia era considerata un paese con una bassa partecipazione al mercato del lavoro, a causa del tasso di attività femminile molto modesto, il 54,7% (in paesi come la Svezia e la Svizzera è l’80%).

La crisi delle assunzioni (oltre 10 milioni di posti di lavoro in attesa di essere riempiti, come si diceva) si aggiunge ad altre due violente scosse di terremoto che stanno scuotendo l’economia americana: la semiparalisi dei trasporti e la mancanza di pezzi di ricambio.

DOPO 40 ANNI di dittatura del metodo Just in Time, ovvero della fantasia che non occorrono magazzini perché i fattori produttivi (materie prime e lavoratori) saranno sempre disponibili al momento voluto nel luogo voluto ci si è accorti che non è così.
Per trasportare l’insalata cresciuta in California nei supermercati di New York occorrono varie cose: acqua a sufficienza perché cresca, lavoratori migranti che la raccolgano, camion che la trasportino e camionisti che guidino i suddetti camion. Una catena che deve funzionare senza nessun intoppo, mentre in questo 2021 tutti questi passaggi sono stati messi in pericolo: la siccità, la mancanza di pezzi di ricambio (fermi in qualche container al largo) e, ora, anche la mancanza di autisti.

A questo si aggiungono gli scioperi già citati, che coinvolgono migliaia di lavoratori anche in settori strategici come le miniere di carbone o le fabbriche di trattori (niente trattori, niente semina, niente insalata dei prossimi mesi).

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