Nella primavera di cinque anni fa Salah Abdel Ati era a Roma, alla Casa internazionale delle Donne, per raccontare i primi dodici mesi di Grande Marcia del Ritorno.

Avvocato, ex direttore della Commissione indipendente per i diritti umani di Gaza, Abdel Ati era uno dei coordinatori della lunghissima protesta, ogni giorno per quasi due anni, lungo il muro tra Gaza e Israele. I cecchini israeliani spararono e uccisero 223 palestinesi, ne ferirono quasi 10mila. Quei crimini di guerra sono parte dell’enorme fascicolo fermo alla Corte penale internazionale.

ORA SALAH ABDEL ATI è impegnato in un’altra battaglia legale: ha fatto causa al governo italiano, nello specifico alla presidenza degli consiglio e ai ministeri degli esteri e della difesa.

A inizio aprile il team di legali del foro di Torino che lo segue ha depositato ricorso urgente in via cautelare al Tribunale civile di Roma per complicità nelle violazioni dei diritti umani da parte di Israele a Gaza. Vendita di armi, taglio dei fondi all’Unrwa ma anche la decisione di non agire – nonostante l’obbligo previsto dalla Convenzione sul genocidio del 1948 – dopo la decisione della Corte internazionale di Giustizia che il 26 gennaio ha accolto il caso mosso dal Sudafrica contro Israele individuando nelle pratiche dell’offensiva contro Gaza un genocidio plausibile.

«Dal 7 ottobre la mia vita è la stessa di tutta la popolazione di Gaza: una pioggia di bombe. Abbiamo perso tutto». Salah è in Egitto, è lì che lo raggiungiamo al telefono: «Vivevo a Beit Lahiya, nel nord di Gaza, lì c’era la mia casa e c’era quella dei miei genitori. Una decina di giorni dopo il 7 ottobre sono giunti i primi ordini di evacuazione perché ci spostassimo a sud. E poi le bombe: hanno distrutto il quartiere. Le nostre case ora sono macerie. Siamo fuggiti, avevamo paura».

CON UN PEZZO di famiglia si è spostato a Gaza city, un paio di giorni, poi ha raggiunto una delle sorelle nel campo di Nuserait. Un mese dopo, insieme alla famiglia e ai genitori, è andato a Deir el Balah: «Ma anche lì sono arrivati gli ordini di evacuazione e l’invasione di terra. Abbiamo deciso di scappare ancora, verso Rafah. Mia madre e mio fratello hanno deciso invece di tornare a Nuseirat. Il 7 dicembre, di notte, l’aviazione ha bombardato il quartiere».

«Hanno distrutto tutto – ci dice Salah – La casa dove vivevano, quattro piani, è venuta giù. Il raid ha ucciso mia madre, uno zio, mia sorella, mio fratello, sua moglie e la figlioletta di due anni e ha ferito una quindicina di familiari».

Li hanno trovati tra le macerie. All’ospedale Martiri di al Aqsa hanno fatto il possibile, «ma manca tutto, non ci sono medicine, non c’è equipaggiamento medico».

Venti giorni dopo la strage, con i figli è riuscito a passare il valico con l’Egitto: «Ma ho ancora un fratello a Beit Lahiya, uno a Rafah, un’altra sorella a Nuseirat. Non hanno niente. Sono crimini di guerra. Sono un avvocato e un attivista per i diritti umani e mi sono rivolto a legali in giro per il mondo».

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DA QUI la richiesta al Tribunale di Roma perché ordini al governo italiano di interrompere la vendita di armi, chiudere lo spazio aereo italiano ai voli che potrebbero trasportare verso Israele equipaggiamento militare, votare in tutte le sedi Onu a favore del cessate il fuoco e ripristinare i finanziamenti all’agenzia per i rifugiati palestinesi Unrwa: «Il governo italiano – continua Abdel Ati – sostiene l’occupazione, come la Germania, la Francia, gli Stati uniti. Non rispettano il diritto internazionale, non rispettano nemmeno quanto ha stabilito il Consiglio di Sicurezza. E allora ci rivolgiamo alle corti perché fermino questa complicità: l’Italia deve rispettare il diritto internazionale».

I contenuti delle 33 pagine della denuncia, che cita la Costituzione italiana e la legge 185 del 1990, oltre ai trattati internazionali, li ha riassunti ieri Duccio Facchini su Altreconomia. Si ripercorrono le posizioni politiche, militari e diplomatiche italiane atte a definire «lampante» la complicità in crimini di guerra e contro l’umanità: «Attraverso il trasferimento di armi, l’ostruzione diplomatica delle risoluzioni o il silenzio – si legge nel ricorso citato da Altreconomia – queste azioni hanno di fatto garantito l’impunità a Israele».

NON È UN’INIZIATIVA isolata: è già successo di fronte a un tribunale della California, con altre famiglie palestinesi che hanno chiamato in giudizio l’amministrazione Biden, ed è successo in Germania dove l’accusa di complicità è stata mossa contro il cancelliere Scholz. In Olanda una corte ha bloccato la vendita di armi a Tel Aviv a metà febbraio dopo il ricorso di Amnesty e Oxfam: a dicembre la stessa corte aveva bocciato l’embargo.

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In mezzo però c’è stata la storica decisione dell’Aja che ha emesso sei misure provvisorie ordinando a Israele di cessare le pratiche che potrebbero configurare il crimine di genocidio, dall’uccisione di massa del gruppo protetto al blocco degli aiuti. Effetti a cascata.