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Spoon River Palestina a Beirut

Spoon River Palestina a Beirut

Le storie Due donne non velate si aggirano circospette nel Cimitero dei Martiri della Palestina a Beirut. Tra le lapidi di poeti uccisi dal Mossad e la tomba del Gran Muftì Hajj el Amin Hussein...

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 4 dicembre 2016

«Ecco, questa qui è la tomba di una donna francese e lì c’è quella di Ghassan Kanafani». Mahmoud Safadi di questo luogo sa tutto, conosce la storia di ogni singola persona seppellita nel cimitero. È il custode e vive giorno e notte tra queste tombe che cura per conto dell’Olp.

«Ghassan (Kanafani) – ci dice – è stato uno dei più grandi intellettuali e scrittori palestinesi. Fu ucciso dal Mossad (israeliano) nel 1972, assieme alla nipote di 17 anni, Lamis. Un bomba fece saltare in aria la sua automobile». Ci invita a seguirlo. Sciorina nomi a ripetizione: Ali Hasan Salameh (il principe rosso), Shafik al Hout, Salah Ibrahim Said e così via. È la storia del movimento di liberazione palestinese e di un’era del Medio Oriente ormai dimenticata o forse ignorata di proposito dalla narrazione «autorizzata».

Siamo a Beirut, nel Cimitero dei Martiri della Palestina o come, più giustamente, lo chiamano alcuni, il cimitero dei martiri della rivoluzione palestinese.

NON LONTANO DA QUI c’è un altro cimitero, quello delle migliaia di vittime palestinesi del massacro di Sabra e Shatila del 1982, un luogo dovrebbero esserci anche due giornalisti italiani, il nostro Stefano Chiarini scomparso nel 2007 e Maurizio Musolino morto lo scorso settembre, che avevano dedicato una buona parte della loro vita a tenere accesi i riflettori sulla questione palestinese.

In Israele definirebbero questo luogo, al quale Mahmoud riserva tutta la cura possibile, un «cimitero di terroristi» considerando che una parte di coloro che vi sono seppelliti hanno partecipato ad attacchi armati tra gli anni Settanta e Ottanta o sono stati leader e militanti di organizzazioni combattenti dell’Olp. Ma forse nello Stato ebraico lo ricorderebbero solo come il luogo dove giace l’odiato mufti di Gerusalemme, Hajj el Amin Hussein.

È qualcosa di ben diverso. Il Cimitero dei Martiri della Palestina è la rappresentazione del sogno di uomini e donne, di ogni angolo del mondo, di diversi orientamenti ed ideologie, di una rivoluzione, quella palestinese, che non aveva come obiettivo solo quello di realizzare i diritti di un popolo scacciato dalla sua terra ma anche di scardinare le fondamenta politiche e sociali del Medio Oriente. Una rivoluzione che voleva abbattere le barriere religiose e la struttura tribale del mondo arabo sulla base di un’idea: la liberazione da tutte le oppressioni.

Il Cimitero dei Martiri della Palestina è l’unico del Medio Oriente dove uomini e donne sono stati sepolti assieme senza tenere conto della loro religione, origine, ceto sociale.

«QUI SONO SEPOLTI sunniti e anche alcuni sciiti, cristiani, arabi, curdi, europei, nordafricani, un russo, diversi asiatici, anche Balqis al Rawi, moglie del celebre poeta siriano Nizar Qabbani, morta in un attentato all’ambasciata dell’Iraq a Beirut nel 1981. Persone che avevano una visione comune del mondo e che credevano in una rivoluzione che doveva liberare i palestinesi e tutti gli arabi», ci dice Sari Hanafi, docente dell’Università americana di Beirut, esperto di profughi palestinesi in Libano. «Oggi che il mondo, non sono quello arabo, è dilaniato dal settarismo religioso, dal conflitto tra musulmani sunniti e sciiti, dalle tensioni tra fedi diverse, questo cimitero ha un valore che va oltre quello simbolico. Ci spinge a pensare di nuovo a un mondo senza differenze tra gli esseri umani, che punta al progresso. Ci aiuta a capire che le lotte del passato non sono state vane», aggiunge Hanafi.

MAHMOUD CI GUIDA ancora tra le lapidi. Sotto un poster enorme con l’immagine del presidente palestinese Yasser Arafat, morto nel 2004 e sepolto a Ramallah, in Cisgiordania, accanto alle tombe di due giapponesi, c’è una lapide con inciso il nome di Kamal Mustafa Ali, uomo del Bangladesh. Non vi è alcuna menzione di chi fosse e nemmeno una data di nascita. Sulla lastra di marmo oltre al nome e al giorno della morte, 22 luglio 1982, c’è solo un versetto del Corano. Mahmoud dimostra di sapere tutto anche in questo caso. «Ali – ci dice – fu colpito a morte durante la battaglia al Castello di Beaufort, vicino Nabatiyeh, l’ultima disperata resistenza dei combattenti dell’Olp contro le truppe israeliane che avevano invaso il Libano e che presto sarebbero arrivate qui a Beirut». Dal Bangladesh furono decine, o forse di più, coloro che si unirono ai ranghi di Fatah, del Fplp e delle altre formazioni dell’Olp, convinti che la lotta dei palestinesi avrebbe spinto alla sollevazione le popolazioni asiatiche contro le oppressioni sociali ed economiche. Di loro si sa pochissimo, come di Kamal Mustafa Ali. Mahmoud non ricorda di aver mai ricevuto famiglie di quel Paese.

VARCANO L’INGRESSO del cimitero due signore. Non portano il velo. Ci avviciamoci incuriositi, facciamo qualche domanda. All’inizio la nostra invadenza non è gradita. «Siamo qui per pregare sulla tomba di nostra madre», ci risponde secca una di loro per tenerci a distanza. Qualche attimo dopo l’altra, forse temendo di essere stata scortese, accetta di risponderci. Ci confida di essere la sorella di un importante esponente dell’Olp di cui però non vuole fare il nome. «Mia madre non era una combattente, non faceva parte di alcuna organizzazione politica, ma ha sempre creduto in certi ideali e ci aveva chiesto di essere sepolta qui, per trascorrere, come diceva lei, il suo sonno eterno con il resto del mondo».

LA SIGNORA, che si presenta come Nisrin, nome forse inventato al momento per non rivelarci quello vero, ora è meno diffidente e inizia a spiegarci il presente più che raccontarci il passato scandito dalle lapidi intorno a noi. «Non è facile vivere in una regione nella quale non ci si ritrova più», afferma. «Il Libamo, la Palestina, il Medio Oriente sono sempre state terre di sofferenza e lutti, che troppe volte ci sono stati portati da voi occidentali. Ora però – prosegue – abbiamo raggiunto le profondità più nere dell’animo umano. La fede che avevamo chiuso nell’ambito spirituale, delle convinzioni personali, è diventata lo strumento che certi leader religiosi e politici usano per spaccare le loro stesse popolazioni e portare morte e distruzione ovunque. In questo cimitero perciò ci vengo per pregare sulla tomba di mia madre e per ritrovare un po’ di serenità».

Mahmoud è intento a lucidare una lapide. Si sposta verso la tomba di Ghassan Kanafani, rimuove qualche fiore secco, sistema meglio quelli ancora freschi. Da lontano lo ringranziamo. Lui ci saluta con un timido gesto della mano, poi torna al suo lavoro strofinando forte con un panno la lastra di marmo.

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