Ryan Gattis: «Los Angeles è un’arma e io premo il grilletto»
L'intervista Parla l’autore di «Uscita di sicurezza» (Guanda) che sarà giovedì 13 a Milano per il Zacapa Noir Festival. L’America del crollo della Lehman Brothers in un noir su due criminali che sognano la libertà e la redenzione. «Prendono a coloro che se lo possono permettere per dare a chi rischia di perdere la casa. I miei banditi assomigliano a Robin Hood»
L'intervista Parla l’autore di «Uscita di sicurezza» (Guanda) che sarà giovedì 13 a Milano per il Zacapa Noir Festival. L’America del crollo della Lehman Brothers in un noir su due criminali che sognano la libertà e la redenzione. «Prendono a coloro che se lo possono permettere per dare a chi rischia di perdere la casa. I miei banditi assomigliano a Robin Hood»
La crisi dei mutui subprimes raccontata attraverso il mondo criminale di Los Angeles. Due personaggi, Ricky Mendoza Jr., per tutti solo «Ghost», scassinatore di professione ma per conto della Dea, e Rudy «Glasses» Reyes, affiliato di lungo corso ad una delle bande malavitose più potenti della città che inseguono un sogno di felicità pronto a trasformarsi anche in una sorta di ricompensa per le tante vittime del crack del 2008: soldi sporchi che potrebbero indennizzare le vittime della «finanza creativa». Dopo aver dato voce alle inquietudini della metropoli californiana attraverso le giornate della rivolta urbana del 1992, e le voci dei protagonisti delle gang di strada, nel suo romanzo d’esordio, Giorni di fuoco (Guanda, 2016), Ryan Gattis descrive ora l’America ferita, impaurita e impoverita che assiste al crollo devastante della Lehman Brothers nel noir Uscita di sicurezza (Guanda, pp. 330, euro 20, traduzione di Katia Bagnoli) che lo scrittore presenterà giovedì a Milano nell’ambito della rassegna «Zacapa Noir Festival». Il tutto attraverso l’osservatorio che ha eletto da tempo a microcosmo del Paese intero: le zone del centro cittadino di L.A. popolate di homeless, marginali e membri delle gang.
Con questo romanzo lei sembra aver voluto riparare almeno in parte ai torti che la crisi dei mutui subprime ha lasciato dietro di sé, anche se la via scelta non è esattamente legale…
Ho scritto un poliziesco, perciò avevo necessariamente bisogno di un crimine. Ma non posso dire che «giusto» e «legale» siano sempre la stessa cosa o coincidano nei fatti. Ho qualche esperienza al riguardo. Dopo aver trascorso un decennio a fare ricerche nel South Central di Los Angeles, intervistando gli ex membri delle gang e le loro famiglie, mi sono fatto un’idea piuttosto precisa del rapporto tra i criminali e il contesto sociale nel quale operano. Perciò è chiaro, io sarò sempre dalla parte dei perdenti, degli ultimi. Del resto, come posso stare dalla parte di un banchiere che fa qualunque cosa, anche la più terribile, spinto dalla propria avidità ben sapendo che non affronterà mai alcuna conseguenza penale e non perderà il proprio lavoro, mentre in tutto il Paese le persone soffrono a causa delle sue decisioni, come è avvenuto nel 2008? Uscita di sicurezza è una favola alla Robin Hood. Il personaggio principale prende da chi se lo può permettere e crea un ingegnoso meccanismo per dare a persone che rischiano di perdere la casa.
I protagonisti vogliono lasciarsi alle spalle una vita fatta di violenza e dolore, subiti e inflitti, e inseguono ciascuno un’idea di redenzione che passa anche per questo «risarcimento». Lo crede davvero possibile?
Penso che la redenzione sia possibile? Assolutamente. Quando stavo scrivendo Giorni di fuoco, ho trascorso molto tempo con persone già appartenenti alle gang che erano adolescenti nei primi anni Novanta e che all’epoca, come accade a quell’età, avevano preso delle decisioni in modo inconsapevole o senza considerare le possibili conseguenze. Poi però sono cresciuti, spesso hanno messo su famiglia e non tutti, ma direi la maggioranza, si sono resi conto degli errori fatti, scegliendo di vivere la loro esistenza «dopo le gang», cercando di migliorare la propria comunità, pensando ai propri figli più che a se stessi. Un percorso che anche lavorando accanto alle associazioni di quei quartieri ho conosciuto bene, qualcosa che mi ha sempre emozionato e commosso moltissimo. Così, quando ho cominciato a lavorare a questo nuovo romanzo, sapevo già che avrei voluto trovare un modo per catturare quello stato d’animo, quella spinta altruista e l’ambizione di fare ciò che è necessario per espiare i torti del passato che animava tutta quella gente.
Con «Sei giorni» avevamo conosciuto la geografia sociale di Los Angeles attraverso la rivolta del 1992, in questo caso l’orizzonte si allarga ma, come racconta Glasses, uno dei protagonisti, a proposito dell’attività delle bande criminali, «si tratta di territori e zone di guerra. Si tratta di strategia, di movimenti di truppe. È un miscuglio di Risiko e scacchi». La città è ancora teatro di una battaglia?
Ogni città può essere il palcoscenico di una battaglia. Può accadere qui come in Europa, magari anche in Italia. Ciò che però va tenuto sempre presente è che Los Angeles è una città fatta di molti territori: di quartieri e aree controllati dalle gang non così dissimili dalle città-stato di un tempo. Molte delle quali sono invisibili agli estranei e a chi non sa leggere i segni di appartenenza che delimitano i quartieri. Zone per il cui controllo diverse gang finiscono per sovrapporsi e che richiedono una politica attenta e basata sull’equilibrio per mantenere la pace. Questo perché Los Angeles è una città latinoamericana. Ma è anche una città del Nord America, una città del Sud America, una città asiatica, una città africana e una città europea: tutto insieme e nello stesso momento. Un posto dove si parlano quasi tutte le lingue del pianeta. Los Angeles è il mondo intero racchiuso in 4.700 miglia quadrate. Perciò, penso che ci saranno sempre schermaglie in un posto simile, perché ci saranno sempre battaglie in giro per il mondo.
Nei dialoghi del libro emerge un portato esistenziale dove speranze, fallimenti, emigrazione, povertà, sfruttamento, droga, violenza trovano il loro posto. Il risultato è una sorta di «storia orale» di Los Angeles. Come si costruisce un simile percorso narrativo?
Per me la scrittura inizia sempre con l’ascolto. Ascoltare, è quello che ho fatto per dieci anni nella zona di South Central. Partecipando agli incontri con le famiglie. Alle riunioni del consiglio comunale. Nei ristoranti. Per strada. Le parole sono la vita di una città. Sono il suo ritmo e la sua melodia. Questo vale in qualche modo anche per il crimine che non è mai slegato da altre storie della città o del Paese. E non mi sento di fare il mio lavoro come scrittore se non riesco a trasmettere ai lettori il senso della realtà di cui parlo. Luoghi e persone dove comunità, cultura e persino subcultura si sovrappongono legando inestricabilmente il passato, ciò che ci ha condotto a questo momento e, appunto, il presente in cui ci muoviamo. Los Angeles è spesso descritta come una città senza storia, ma non è vero, non lo è mai stato. Se conoscessi i personaggi a cui mi sono ispirato nei miei libri lo capiresti. Ma, al tempo stesso, per capirli veramente, devi anche conoscere la città che li ha modellati, li ha fatti diventare ciò che sono. Nel mio lavoro, la città è una pistola. E io premo sempre il grilletto.
Al pari dei personaggi dei suoi libri anche lei è in qualche modo un sopravvissuto dopo aver subito un grave trauma da ragazzo. Viene anche da qui la grande attenzione che mostra per coloro il cui destino è contrassegnato dalla violenza?
Quando avevo 17 anni mi hanno quasi stato strappato il naso dalla faccia. Ho avuto bisogno di due interventi chirurgici ricostruttivi per il viso e c’è voluto più di un anno perché recuperassi completamente l’olfatto, l’udito e il gusto. Questa esperienza estrema di dolore, e il modo in cui ho dovuto rimettere insieme tutto il mio corpo, continua a nutrire il modo in cui mi rapporto agli altri sopravvissuti alla violenza. E per forza di cose tutto accade attraverso una profonda empatia. Anzi, direi che più che scrivere di ciò che è accaduto loro, cerco di entrare in contatto con queste persone attraverso ciò che scrivo. Partecipo ad incontri con vittime di aggressioni come la mia, di accoltellamenti e sparatorie. Condividiamo le nostre storie, perché sono un’opportunità per capirci e conoscerci, ma anche per sondare e discutere la fragilità della vita.
La violenza sembra dominare la società americana. Il manifesto l’aveva già intervistata nel marzo del 2016, pochi mesi prima dell’elezione di Donald Trump. Come è cambiato il Paese nel frattempo e possiamo aspettarci qualche notizia positiva dalla campagna presidenziale che si è aperta proprio in questi giorni?
Penso che i democratici rimangano confusi (come indica il disastro del meccanismo dei caucus dello Iowa) e il fallimento dell’impeachment sta finendo per rafforzare Trump, dandogli ancora più margini per agire impunemente e abusando del suo potere. Direi perciò che sono momenti piuttosto cupi per la verità, la giustizia e la vita stessa degli americani. Per quanto riguarda gli effetti di tutto ciò sulla California, e Los Angeles in particolare, non credo che il quadro sia migliore. I tagli alle tasse hanno aiutato solo gli ultra ricchi, l’attacco all’assistenza sanitaria rimane un problema serio e il tema dell’immigrazione continua ad essere affrontato solo attraverso le invettive e gli allarmi. Soprattutto, ma questo in tutta l’America, si finge di ignorare che siamo una nazione che si è costruita grazie all’immigrazione, che la nostra diversità è anche la nostra forza. Non il contrario. Siamo tutti immigrati, tutti siamo arrivati prima o poi da qualche altro posto per costruirci qui una vita. Quindi, no, visto come vanno le cose attualmente non sono decisamente fiducioso per il futuro.
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