Mentre Tripoli è di nuovo ostaggio di scontri a fuoco tra opposte fazioni e nella Mezzaluna petrolifera l’esercito del generale Haftar annunciava la ripresa dei terminal petroliferi di Ras Lanuf e Sidra (occupati dagli islamisti delle Brigate di Difesa di Bengasi), nel devastato cielo libico esplodeva un’altra bomba: la Russia avrebbe dispiegato 22 militari in Egitto a 100 km dal confine con la Libia.

Le fonti della notizia sono anonime e statunitensi e il Cremlino si è affrettato a smentire: il portavoce del Ministero della Difesa Konashenkov ha parlato di una «macchina del fango da parte di alcuni media occidentali».

A ruota segue la nota del Cremlino: Mosca è interessata alla «stabilizzazione della Libia in un modo o nell’altro, affinché le sue autorità siano in grado di garantire che il territorio libico non diventi un terreno fertile per i terroristi», ma «un intervento eccessivo da parte della Russia negli affari libici è difficilmente possibile e per nulla consigliabile».

L’appoggio che Mosca sembrava voler garantire ad Haftar (che dietro ha Egitto e Emirati Arabi) si è presto trasformato nella volontà di facilitare un accordo politico con il governo di unità nazionale di al-Sarraj, basato a Tripoli: Mosca vuole porsi come mediatrice della soluzione, in stile siriano, e non come incendiaria. Tanto che, ad oggi, a Tobruk sono arrivati (almeno ufficialmente) solo specialisti militari per la riparazione di vecchi jet.