Rotta balcanica, i corpi doloranti e la cura del «carrettino verde»
Un «non luogo» di frettoloso passaggio verso la stazione dei treni o degli autobus, che sorgono affiancate, è diventato il Luogo della Cura. Sono quasi tre anni di presenza quotidiana per dare corpo a questa pratica: la Cura è incontro di corpi, «un corpo chiama, un corpo risponde». Evento assai raro nelle nostre società, dove non siamo il nostro corpo ma abbiamo un corpo che riceviamo dallo Stato con la carta d’identità, configurato dall’industria della moda, dello sport, dall’apparato sanitario, dal turismo, dalle innumerevoli abitudini che hanno tutte uno sfondo commerciale.
Ogni giorno nella piazza del mondo a Trieste curiamo le persone migranti che giungono dalla terribile rotta balcanica. Incontriamo «corpi di dolore», corpi offesi, denutriti, assetati, affamati, ricoperti di terra, fango, sudore, ferite, vesciche. Chi arriva è un sopravvissuto. Di tanti altri non conosciamo il destino cui sono andati incontro attraversando le ripide montagne della Croazia, della Slovenia, del Carso, i suoi fiumi vorticosi, i boschi selvaggi. Sappiamo che molti sono morti cadendo in una buca di dolina, o annegando in un corso d’acqua mentre cercavano di scappare dalla polizia che li inseguiva, o impallinati come cervi, oppure semplicemente scomparsi senza lasciare traccia se non nel disperato appello di madri, figli, fratelli, sorelle che li cercano invano.
Ogni giorno il carrettino verde della cura, pieno di bende e pomate, si fa testimone di questi corpi offesi che i confini ci restituiscono a pezzi. La Cura è un mandato tacito che raccogliamo da padri o madri, comunità di terre straniere, periferie urbane lontane, sconosciute, che hanno affidato i loro figli, padri, mariti, amici, compaesani, alle mani di persone che hanno a cuore la cura della vita, affinché ne ricevano l’invocazione muta a non abbandonarli. La «cura» è l’arte di esistere formando comunità, ma è anche una pratica di resistenza e di lotta. Queste tre dimensioni vanno insieme: non c’è resistenza senza lotta ma non ci sono resistenza e lotta senza cura, cioè senza costruzione di collettività basata sulla cura reciproca.
Se resistenza e lotta sono i modi necessari della contrapposizione al potere, all’ingiustizia, Cura è il modo della costruzione di relazioni, comunità, società.
C’è sempre stata, almeno in occidente e in particolare nella modernità, separazione fra l’attività di cura, delegata alle donne e gli altri tipi di attività, soprattutto il lavoro salariato, affidato principalmente agli uomini. La nostra pratica di strada ci insegna, oggi, che la cura per l’altro è l’attività essenziale per produrre alternative al modo di vita dominante.
La Cura è anche una sorta di laboratorio simbolico che svolge una funzione di contenimento, trasformazione e riparazione del danno subito lungo il viaggio infernale dai lontani Paesi d’origine. Nella piazza del mondo, attorno al carrettino verde, donne e uomini, giovani e anziani sanno prendersi cura dell’altro, lo straniero, lo sconosciuto, chiunque sia. Si tratta in particolare dei transitanti: quelli che cercano di non lasciare qui le loro impronte per non essere un giorno respinti in base alla legge di Dublino mentre tentano di proseguire verso il mitico Nord Europa.
Appaiono come ombre nella città indifferente, fino a che nell’ombra scompaiono. La pratica della Cura in strada ci insegna che sono il loro corpo, mentre noi abbiamo un corpo. Sono il loro corpo proprio mentre devono nascondersi alle polizie di dozzine di Stati che vogliono impadronirsi del loro corpo per punirlo d’aver osato di essere un corpo al di fuori del loro potere sui corpi.
Il lungo cammino dal Medio Oriente e anche da più lontano, che chiamano game, nel significato di mettere in gioco tutto, dà loro un corpo.
Nell’incontro, restituiscono anche a noi un corpo quando curiamo i loro piedi feriti, quando diamo loro da mangiare dopo giorni di digiuno, quando diamo loro scarpe, vestiti e sacchi a pelo noi riceviamo da loro il nostro corpo. Noi abbiamo cura di loro, ma anche loro hanno cura di noi. La cura è reciproca o non è. Ci portano le loro esistenze dimidiate, le loro speranze di vita ma anche la tragedia delle morti. Se il Mediterraneo è diventato un mare di cadaveri, una grande tomba subacquea, anche nei fiumi lungo il tragitto dei Balcani o nelle fosse di dolina del Carso, o nei dirupi dei monti, i morti non si contano.
Il 5 agosto del 2022, accanto al carrettino verde della cura, è volutamente nato il «Lenzuolo delle madri di frontiera», sulla scia delle madri dei desaparecidos, per dare un nome a chi non è sopravvissuto. Sulla sua bianca trama viene raccontata la storia della migrazione di questi ultimi anni e il filo rosso prende il posto del sangue con cui questi figli si sono ricongiunti con la madre terra.
Nel ricamo di mani che curano la vita, cesellando un nome o riparando una ferita, si concretizza la valenza simbolica del carrettino verde e della sua presenza costante sulla scena della piazza. Lui è storia e memoria, è testimonianza viva, simbolo di resistenza quotidiana; pur nella sua fragilità nutre quella sorgente inesauribile da cui sgorga, inesauribile, la domanda di vita e speranza del migrante. Nella sua semplicità, è lì fedele alla propria origine per essere sempre «dove bisogna stare» cercando di mettere al mondo ciò che ancora non c’è.
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