Rubriche

Rosatellum (o la politica maccheronica)

In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 10 ottobre 2017

La cosiddetta Seconda Repubblica si aprì all’insegna del Mattarellum – dal cognome del suo principale artefice, oggi capo dello stato – la legge elettorale maggioritaria che avrebbe dovuto aprire una fase di sorti se non magnifiche almeno più progressive delle precedenti, segnate dal sistema proporzionale da molti in quel momento aborrito.

Le sorti progressive, in un ventennio abbondante, si sono viste poco, per la verità, e questa storia sembra essere stata archiviata con la poco decorosa fine del Porcellum, che prende il nome non dal suo autore, ma dalla sua natura e vocazione, riassunta nella versione da ogni punto di vista volgare di Porcata, consigliata proprio da chi la inventò, il senatore leghista Calderoli.

Quella legge infatti, a pochi mesi dal voto del 2006, era stata fatta da una maggioranza di centrodestra per mettere i bastoni tra le ruote del centrosinistra di Prodi, che infatti in circa due anni deragliò.

Renzi e i suoi si inventarono l’Italicum – senza smentire il vezzo maccheronico, ma con più ambizione nazional-riformista – che fu travolto dai No al referendum costituzionale e dalla successiva sentenza negativa della Consulta.

Adesso, di nuovo in extremis in vista delle prossime elezioni politiche, spunta il Rosatellum: il cognome maccheronizzato del capogruppo alla camera del Pd sembrerebbe conferire un colore più gentile alla faccenda, ma buona parte dell’attuale Parlamento – dai grillini al movimento di Bersani e D’Alema – grida che è una specie di golpe ai loro danni.

Il linguaggio è sempre rivelatore di qualcosa che ha a che fare con il reale, e qui fa pensare a una deriva farsesca della politica italiana. Potrebbe persino non essere un male: i poemi maccheronici del nostro Teofilo Folengo ispirarono un gigante come Rebelais. Però dubito molto che il latinorum istituzionale attuale possa stimolare seguaci all’estero.

Dalla Spagna risuona il giusto grido: «Parliamoci!». Ma per capirsi davvero bisogna scegliere con cura le parole. Mi hanno colpito questi due virgolettati:

  1. «Serve una grande forza popolare, inclusiva, con ambizioni di governo e radicale nel messaggio di cambiamento. Aperta al civismo, all’ambiemtalismo, e al cattolicesimo democratico».
  2. Non bisogna «mutare l’orizzonte di un impegno politico basato sul civismo,l’ambientalismo, il volontariato, l’interazione col cattolicesimo democratico».

Non è la stessa persona a parlare, ma i due capi di movimenti che, stando ai nomi, si rifanno alla stessa idea: «Movimento dei progressisti» (Roberto Speranza) e «Campo progressista» (Giuliano Pisapia). Peccato che si siano appena mandati ognuno al suo paese.

Naturalmente non voglio scherzare più di tanto su motivi di divisione che sono legati anche ad analisi politiche non infondate e giudizi sulle vicende succitate della nostra storia recente che evidentemente sono assai divaricati, nonostante il fatto che le prospettive politiche e sociali di fondo siano declinate con parole tanto sorprendentemente simili.

Forse, comunque vada in materia di liste, alleanze e denominazioni maccheroniche, sarebbe il caso di concentrarsi sul senso radicale di alcune espressioni, facili da pronunciare, ma difficili da intendere. Che significa, per fare un solo ma essenziale esempio, proporsi un accordo forte tra culture della sinistra laica e del cattolicesimo democratico? Non è anche – e forse soprattutto – su questo terreno che il Pd ha fallito?

È giustissimo che questo giornale ripubblichi i discorsi di Francesco ai movimenti popolari. Tuttavia sospetto che… non sufficit.

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