Roma, négritude ’59
L'evento, nel marzo di 65 anni fa «Il Congresso mondiale degli artisti e scrittori neri», provenienti da 31 paesi, nella capitale d'Italia
Fino al 31 marzo del 1959, 65 anni fa, Frantz Fanon, Aimé Césaire e circa altri ottanta artisti e scrittori neri passarono una settimana Roma, muovendosi tra Villa Borghese, un auditorium del centro, il Campidoglio, e un hotel sulla Cassia dove dormivano. Si incontrano, discutono, presentano relazioni, e non mancarono i momenti più distensivi come concerti e passeggiate in città. Per capire cosa ci fanno due dei più (se non i più) importanti pensatori anticoloniali del novecento a Roma a fine anni ’50 bisogna ricostruire la storia del «Secondo Congresso mondiale degli artisti e scrittori neri», e in parte il clima culturale e politico dell’epoca.
Nel 1959 Roma si prepara ad accogliere le Olimpiadi del 1960 e i festeggiamenti per il secolo dell’Unità d’Italia (1961). Due anni prima, sempre a fine marzo, proprio nella capitale italiana si firmano gli accordi per la Comunità Economica Europea, antesignana dell’Unione Europea. Impazza quel fenomeno di costume chiamato la dolce vita e il paese vive il suo boom economico.
Dopo la Seconda guerra mondiale l’Italia ha perduto le sue colonie, ma negli anni ‘50 è ancora in Somalia attraverso un meccanismo dell’ONU chiamato «amministrazione fiduciaria» – gli storici sono ormai concordi nel definire questa presenza prolungata in Africa come un’appendice del colonialismo. E presenza fisica o meno, le tracce del colonialismo sono ancora ovunque nel paese, nelle memorie della gente, nelle istituzioni, nei luoghi, come il Museo Coloniale di Roma, dove – senza contraddizioni apparenti – si svolgono parte dei lavori del «Secondo Congresso degli artisti e scrittori neri»: vi partecipano poeti, uomini di cultura, ma anche politici di alto rango, provenienti da Africa, Caraibi, Nord America.
Il primo si era tenuto alla Sorbona a Parigi nel 1956, organizzato dalla rivista panafricana Présence africaine e dalla Società Africana di Cultura. Per la parte italiana coordina l’Istituto Italiano per l’Africa, che ha legami strettissimi con la storia del colonialismo italiano, e le istituzioni sono molto presenti, dal Campidoglio a membri del governo.
L’ultimo giorno, prima di ripartire, i congressisti vengono ricevuti anche dal Papa. I manifesti che pubblicizzano il congresso sono realizzati da Pablo Picasso e Gerard Sekoto, e, oltre a Fanon e Césaire (oggi probabilmente i nomi più noti) i partecipanti includono personalità come Jean Price-Mars, all’epoca ambasciatore di Haiti in Francia; René Maran, il primo di origini africane a vincere il premio Goncourt nel 1921; lo scrittore camerunense Mongo Beti; dal Senegal lo studioso Cheikh Anta Diop e lo scrittore (non ancora regista) Ousmane Sembène; e poi Eduard Glissant, Mario Pinto De Andrare, Marcelino Dos Santos, e tantissimi altri. Ignazio Silone parla a nome degli scrittori italiani e i giornali dell’epoca seguono attentamente i lavori (si veda l’articolo di Erica Bellia in queste pagine). Insomma, non una riunione di carbonari che vogliono sovvertire l’occidente, ma un evento di una certa importanza e che come tale viene vissuto anche dal mondo culturale e politico italiano, con tutte le contraddizioni del caso.
Ma perché proprio Roma, e non in Africa o in una città del nord America dove esplodevano le contraddizioni razziali? Sull’Unità dell’epoca se lo chiedeva Michele Rago, giornalista e studioso, che notava che scrittori e artisti neri volevano parlare «ancora alla cultura del Continente stesso che ha aperto le strade alla civiltà moderna e generato, insieme alle forme più abiette di sfruttamento sull’uomo, la schiavitù o anche solo il rifiuto di una parte di diritti di milioni di uomini».
Dice qualcosa di simile nel suo discorso di apertura Alioune Diop, intellettuale e politico senegalese, fondatore e direttore della rivista Présence africaine, e figura chiave dell’organizzazione di questo congresso e di quello del 1956: ritrovarsi nelle grandi capitali dell’occidente per un confronto, quasi un corpo a corpo, con queste. Parigi e Roma non sono scelte a caso, ma da un lato per portarvici le contraddizioni del colonialismo e dello sfruttamento che l’occidente ha prodotto, e dall’altro per misurarsi con quella cultura di cui, volenti o nolenti, sono figli anche i popoli recentemente decolonizzati o in corso di – la guerra d’Algeria impazza in quei giorni, l’eco in Italia è fortissimo, più che in qualunque paese occidentale Francia esclusa.
Gli scopi del congresso sono dunque chiari, come dice Diop stesso: «disoccidentalizzare per universalizzare: tale è il nostro obiettivo, tale la nostra speranza». Come nota Justin Randolph Thompson (in queste pagine) il congresso serve per riconoscersi e trovarsi insieme in un luogo, in un periodo in cui non è così scontato riuscire a radunare così tanti intellettuali neri in uno stesso luogo.
E poi lavorare per riconoscere le somiglianze, nonostante le molte provenienze e lingue – moltissime, e fu infatti un tema di discussione, con relative questioni sulla egemonia di una o dell’altra lingua coloniale (inglese, francese, portoghese in primis). Il tema dell’unità nelle differenze, dell’esistenza di una cultura nera che si esprime in continenti diversi e in forme molteplici ma con tratti comuni, è fondamentale di quegli anni – si parla di negritudine, panafricanismo, eccetera.
Di quel congresso, mentre molto lavoro d’archivio deve ancora essere fatto (anche perché non tutti i documenti sono stati resi disponibili), oltre a sparuti filmati e fotografie disponibili anche in rete rimangono molte delle relazioni, pubblicate in inglese e francese proprio su Présence africaine, e qualcosa anche in italiano sulla rivista Africa.
L’intervento di Fanon fu invece pubblicato in aprile di quell’anno su Rinascita, il mensile del Partito Comunista diretto da Palmiro Togliatti. Verte sul tema «Nazione, cultura e lotta di liberazione», e sarà poi espanso in un fondamentale capitolo de I dannati della terra. Fanon non è ancora il pensatore conosciuto e studiato in mezzo mondo, ma un trentaquattrenne psichiatra membro e rappresentante del Fronte di Liberazione Nazionale algerino. In questo importante contributo sostiene che solo con la lotta di liberazione e la nascita di una nazione indipendente ci può essere cultura, poiché questa è «espressione di una nazione, delle sue aspirazioni, delle sue esigenze represse, di altri valori, di altri modelli. La cultura nazionale è la somma di tutti questi elementi».
Gli echi gramsciani sono forse quelli che attirarono il mensile comunista (dovrebbe questo essere il primo testo di Fanon mai uscito in italiano, come nota Neelam Srivastava), e la nazione che ha in mente è naturalmente quella algerina, ma quello che dice applica tantissimi paesi africani ancora non indipendenti – l’anno dell’Africa sarà proprio il 1960. Fanon tornerà a Roma più volte in quegli anni, qui incontrerà Jean-Paul Sartre che scriverà la famosa prefazione del suo libro più importante, e proprio tra fine anni 50 e inizio anni ’60 la capitale italiana diventa uno dei centri dell’anticolonialismo e terzomondismo. Forse questo congresso va visto anche come un pezzo di quella storia, che non è una storia solo di militanti rivoluzionari ma anche di forme di anticolonialismo decisamente più moderate e vicine alle istituzioni, a partiti istituzionali o a settori della Chiesa Cattolica.
Insomma, quello del 1959 fu un evento fondamentale, che portò per qualche giorno a Roma riflessioni fondamentali che occupavano le menti di migliaia di persone in più continenti; che interessò anche le istituzioni italiane, non ancora decolonizzatesi e anzi pienamente immerse nelle loro contraddizioni, e il Vaticano; e che vide la stampa e alcuni intellettuali italiani seguire i lavori in maniera attenta e partecipata. 65 anni dopo è importante ricordarlo e parlarne di nuovo.
Su questo tema l’autore ha curato uno speciale per il podcast Sveja, disponibile online, e è in corso di organizzazione un convegno presso il Reale Istituto Neerlandese di Roma.
A colloquio con Justin Randolph Thompson
Artista, curatore, facilitatore culturale e educatore statunitense, Justin Randolph Thompson vive in Italia dal 1999. Qui, tra le altre tante cose, dirige e ha fondato il Black History Month Florence, un’iniziativa che dal 2016 – coinvolgendo decine di artisti e istituzioni – ha avuto il pregio di mettere al centro del dibattito culturale e artistico la storia delle culture afrodiscendenti in Italia. Questa ricerca si colloca anche nella sua ricerca come artista, come si è visto per esempio nella recente mostra personale «Minted in Enemy Bronze» alla British School at Rome. Tra gli eventi organizzati in questa occasione c’era anche la proiezione di From the Campidoglio to the Zoo, film dell’artista statunitense che parte proprio dal Secondo Congresso degli Artisti e Scrittori Neri e da una critica che ne fa lo scrittore William Demby (che a quel congresso partecipò). Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per parlare del suo lavoro.
Perché questo congresso è importante?
Il congresso del ‘59 è un secondo passo, dopo un primo convegno a Parigi che era un po’ una versione pilota, di un tentativo di mettere insieme artisti e scrittori neri in un tempo in cui non era così facile avere nello stesso luogo figure che rappresentano la diaspora e vari paesi africani. I convegni negli anni prima erano più legati a un contesto politico e meno culturale, in questo senso questo congresso è una novità.
Come e cosa ti ha avvicinato a questo evento?
Partendo dal contesto dell’afrodiscendenza in Italia. Incontrando questo materiale e naturalmente le importanti voci che erano presenti mi ha spinto molto a riflettere sul ruolo che abbiamo noi come artisti e operatori culturali nel creare situazioni simili, nel capire cosa possiamo imparare da questi eventi, per immaginare anche chi sarebbe invitato a un evento del genere se fosse organizzato oggi. È molto utile perché mi pare che la visione panafricana, quell’urgenza di unità che c’era negli anni ‘50, a mio parere è un po’ sparita.
Come si fa rivivere questo evento da un punto di vista artistico?
Uno dei modi è pensare a esempi di iniziative simili oggi, come – nel contesto statunitense – «Black Artist Retreat» (a cui ho avuto la fortuna di partecipare) organizzato da Theaster Gates, o «Loophole of Retreat» di Simone Leigh, a Venezia. Stando in quelle stanze, insieme ad altri centinaia di artisti e curatori, si sente e si vede il potere di questi gruppi, riconoscendoci. Poi penso si possa far rivivere quel congresso anche semplicemente leggendo i testi, gli interventi e i discorsi, che sono pubblicati dalla rivista Présence africaine [in francese e in inglese]. Lì possiamo verificare intanto la validità di quello che veniva argomentato al tempo, e anche vedere cos’è cambiato nel frattempo.
Nella tua opera torna spesso quest’idea del lavorare insieme, del lavoro collettivo.
Sì, io lavoro molto sul contesto storico, e sono un artista che ha una grande diffidenza per la storia monumentale. Per riuscire a creare una riflessione, una condivisione e proliferazione delle narrazioni che magari non sono state conservate è necessario essere in più persone. È una forma di contromonumento. Così ci si mette anche sempre in gioco, afferrando le prospettive degli altri, lavorando con gli altri e anche riconoscendo le proprie ignoranze,. Tutto il lavoro di Black History Month Florence e di The Recovery Plan (lo spazio che Justin Randolph Thompson dirige a Firenze ndr) è un lavoro di formazione, io imparo da ogni evento che facciamo, e penso che debba essere così.
Nel tuo lavoro c’è un forte riuso di materiale che trovi in giro o che immagino compri a mercatini. Come mai?
Ho sempre l’idea, attraverso il mio lavoro, di portarci in un altro tempo. Per me è più facile farlo attraverso oggetti già datati di loro, soprattutto quando vengono accostati a oggetti che sono trattati per farli sembrare di un altro tempo. La prima volta che ho lavorato con materiale usato è stato con le trapunte americane, le donne della mia famiglia facevano i quilt, le trapunte che erano spesso frutto di lavori collettivi, con più donne insieme a cucire, con frammenti di storia delle proprie famiglie che venivano messe in questo oggetto unico che era una sorta di talismano. Ho cominciato usando questo materiale di recupero trovandole o comprandole da persone a cui non interessava più preservare questo tipo di storie. Per me questa è una forma di collaborazione con persone che non conoscevo, io porto qualcosa che hanno creato loro, in questo modo si riconoscono le mani che hanno fatto le cose del passato.
Torniamo al Congresso del ‘59. C’è un artista o scrittore che era presente che ti ha particolarmente influenzato?
Direi Aimé Césaire, perché attraverso la sua poetica offre qualcosa per ogni lettura. Per me tornare a Césaire vuol dire tornare sempre a qualcosa di molto ricco, denso, profondo, diretto ma allo stesso tempo etereo. Nelle sue poesie peraltro c’è una grande presenza di metafore geologiche: mio nonno era geofisico, quindi questo elemento ha sempre fatto parte del mio lavoro e trovarli sempre in queste poesie mi aiuta molto a pensare al nostro rapporto con la terra, con il tempo, con l’estrazione di coscienza ma anche di minerali della terra stessa. Lui insomma è una figura a cui guardo spesso.
* Intervista realizzata con la collaborazione di Marta Pellerini, Visual Art Residency and Programme Curator alla British School at Rome
Appendice: le reazioni sulla stampa italiana
(di Erica Bellia)
Roma, fine marzo 1959. I titoli dei giornali borbottano di un’Italia alle porte del suo ‘miracolo’ già pregno di contraddizioni; un’Italia che, con Franco Fortini, potremmo definire allegoricamente «piena di stanchezza coloniale». Sono giorni popolati da spettri che agitano, senza furore, l’opinione pubblica. L’Algeria desta più di qualche preoccupazione – o speranza – per gli equilibri mediterranei. La Somalia sobbolle negli ultimi mesi sotto il controllo italiano prima dell’indipendenza. Il 16 marzo ’59 iniziano le riprese de La dolce vita, il film in cui la società romana a cavallo fra anni ’50 e ’60 si guarderà allo specchio con orrore e desiderio, esotizzando le sue alterità. In questa congiuntura storica, che segna una ridefinizione delle identità italiane alle porte del centenario dell’Unità ma anche un riconfigurarsi dei rapporti con i paesi africani, un evento all’apparenza squisitamente culturale attira l’attenzione trasversale di tutto lo spettro politico e culturale: il «Secondo Congresso Mondiale degli Scrittori e Artisti Neri», in corso a Roma fra il 26 marzo e il 1° aprile ‘59. Dal Corriere al Messaggero, dall’Unità al Tempo, dal Paese al Giorno, passando per L’osservatore romano, tutti i più importanti quotidiani dedicano almeno un articolo – ma in molti casi la copertura è ben più ampia – all’evento che rende Roma, per qualche giorno, meno prepotentemente bianca. Perché?
Da una parte, il Congresso è presentato come fatto di costume. Andrea Rapisarda, sulle pagine del Messaggero, ricorda come «Il fastoso salone usualmente adibito ai congressi offriva uno spettacolo fuori del comune, affollato com’era di uomini dalla pelle scura in mezzo ai quali facevano spicco, fra i più vestiti con abiti di eccellente taglio occidentale, gli uomini e le donne che avevano voluto indossare i loro variopinti e fastosi costumi nazionali». Su questa linea molti commentatori. Dall’altra parte non manca chi esprima genuino sostegno alle lotte anticoloniali. È questo il caso – ma è solo un esempio – dei reportage di Jacques Kermoal sul giornale socialista l’Avanti!, che includono due interviste allo scrittore camerunense Mongo Beti e al martinicano Aimé Césaire. Al centro della copertura offerta dal giornalista di origini francesi ci sono scottanti contenuti politici: dal problema dell’arruolamento di soggetti colonizzati negli eserciti dei colonizzatori, al carattere non neutrale del luogo in cui i lavori del Congresso si svolgono, il Museo Coloniale di Roma. La stampa di destra usa invece il Congresso come occasione per portare avanti sottotraccia contenuti razzisti. È il caso di un articolo di Alberto Giovannini (già direttore di Somalia fascista in epoca coloniale) per Il borghese, nel quale una certa nostalgia per il passato coloniale italiano si accompagna alla delirante denuncia di un razzismo perpetrato ai danni dei bianchi. Il pezzo si apre – siamo nel 1959 – sui versi della canzone fascista Faccetta nera.
In ogni caso, la négritude celebrata o contestata nei giorni del Congresso a Roma è un fenomeno d’élite, controllato. Come molti titoli urlano, è l’intellighenzia africana e afroamericana che converge a Roma, una capitale imperiale. Sono le classi dirigenti, di uomini e poche donne formatisi nelle università occidentali, come i commentatori ribadiscono, a indicare la direzione da prendere. Le frange più radicali, che generano dibattito, come Frantz Fanon, sono a stento menzionate dai giornali (ma Rinascita pubblica l’intervento di Fanon per intero proprio all’indomani del Congresso).
A lavori terminati, tutto sembra rientrare alla normalità. Come ne La dolce vita, l’Africa in Italia torna a essere una presenza marginale. Ma i semi sono stati piantati, con tutte le loro contraddizioni.
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