Il dibattito contemporaneo sulle letterature africane della diaspora esibisce questioni relative al rapporto tra lingua e identità, storia e memoria, politica coloniale e evoluzione della nazione nel post-indipendenza, migrazione e ritorno alle radici familiari, che coinvolgono un po’ tutte le letterature postcoloniali, e in ultima analisi, anche il contesto di lingua inglese. Negli ultimi anni, alcuni interventi provocatori hanno reso l’idea di quali siano le questioni più dibattute. L’articolo dal tono ironico della scrittrice etiope-americana Maaza Mengiste, «What makes a ‘real African’?» (uscito sul «Guardian», 7 luglio 2013) e le istruzioni non prive di sarcasmo dell’autore keniota Binyavanga Wainaina in «How to write about Africa» apparso su «Granta» (2019) si ricongiungono al famoso intervento ai TED Talk del 2009 di Chimamanda Ngozi Adichie, «Il pericolo di un’unica storia», Einaudi 2020).

Varietà delle esperienze

Ciò che questi e altri autori sostengono è l’urgenza di esplorare, indagare e proporre una rappresentazione delle storie africane che restituiscano il senso della varietà di esperienze e incroci culturali e linguistici dei singoli paesi, di regioni allargate o piccole comunità, contro l’idea di «passati coloniali» e processi decoloniali omogenei.

Di questo dibattito è partecipe la voce di Abdulrazak Gurnah, nato a Zanzibar nel 1948, poi profugo in Gran Bretagna all’età di diciotto anni, in seguito alle persecuzioni della minoranza musulmana da parte del governo della Tanzania negli anni Sessanta. Dopo una fase dedicata all’insegnamento presso la nigeriana Bayero University, Gurnah si trasferì definitivamente in Inghilterra e attualmente insegna all’Università del Kent.

Elaborato fin dal primo romanzo, Memory of Departure (1987), uno tra i temi più cari all’autore, che l’anno scorso ha vinto il Nobel, è il rapporto fra memoria e migrazione, discusso secondo strategie narrative che interessano gran parte della letteratura postcoloniale: da un lato, l’idea che la scrittura nasca da un profondo senso di appartenenza a un luogo specifico e quindi faccia parte dell’identità che ne deriva; dall’altro lato, l’idea opposta – già sostenuta a suo tempo da Edward Said nelle sue Riflessioni sull’esilio – secondo cui una certa distanza offrirebbe uno sguardo più nitido e veritiero sul paese d’origine.

Gurnah concepisce sia l’esperienza della migrazione che il suo racconto come un continuo andirivieni fra vicende specifiche e chance di scrivere «una delle tante storie dei nostri tempi». È una prospettiva, questa, che si ritrova nel romanzo Sulla riva del mare, uscito per La Nave di Teseo l’anno passato, e con grande evidenza nell’appena riedito quarto romanzo, Paradiso, già pubblicato nel 2007 e ora in una nuova traduzione a cura di Alberto Pezzotta (La nave di Teseo, pp. 368, € 20,00).

Ambientato nella terra d’origine di Gurnah, quella Deutch-Ostafrika dell’Africa orientale che fu colonia tedesca, una geografia mai troppo esplorata nelle narrazioni storiche e letterarie sulla presenza coloniale europea nel continente, Paradiso segue la storia di un ragazzo, Yusuf, agli inizi del ventesimo secolo, in un territorio fra mare e villaggi rurali dove presto arriveranno i colonizzatori: sono luoghi che insieme alla questione dell’imperialismo tornano anche nell’ultimo romanzo di Gurnah, Afterlives (2020, non ancora tradotto in italiano).

Gurnah sembra voler focalizzare l’attenzione del lettore non tanto sulle vicende drammatiche e rocambolesche del protagonista, quanto sul contesto linguistico-geografico descritto in modo dettagliato, a tratti con venature liriche. Sottratto alla famiglia in giovanissima età, a causa dei debiti contratti dal padre, Yusuf impara in fretta le violenze e i soprusi cui soggiace una vita senza protezione, dove per farsi strada nel mondo ci si può solo affidare alle proprie risorse fisiche e intellettuali.

L’unico svago a sua disposizione è il giardino che appartiene alla misteriosa moglie dello zio, una donna reclusa e, a detta di tutti, stravagante se non pazza, personaggio che rimanda sia alla consorte caraibica di Rochester in Jane Eyre, sia alla Miss Havisham di Grandi Speranze. Il giardino, pieno di fiori e di pace, è invece uno dei vari riferimenti al «paradiso» del titolo, e a tutti quei luoghi «che resistono alla cattiveria degli uomini predatori».

La bildung di Yusuf ricorda i personaggi dei grandi romanzi vittoriani, i bambini senza famiglia che partono da soli alla scoperta del mondo, dove alla metropoli londinese di Oliver Twist e di Pip, si sostituisce – a rappresentare il «mondo grande» – una terra di piccoli villaggi, foreste e «paradisi naturali», mercati e città sedi di traffici e guerriglie per l’accaparramento di spezie, pietre preziose e altri prodotti, a formare un contesto mobile, contaminato, e in perenne evoluzione.

Anche i dialoghi e le tensioni fra i personaggi esibiscono riferimenti letterari che vanno dalla narrativa inglese a episodi tratti dal Corano a antiche Sure, alle Mille e una notte e, in particolare, ai classici della letteratura africana scritti in inglese e ai testi di viaggiatori nell’Africa orientale del XIX e inizio XX secolo composti in swahili, tra le cui pagine si trovano resoconti di esplorazioni dei territori africani e di viaggi in Europa. Ma quel che più conta è la strategia narrativa informata da un’ottica tipicamente postcoloniale con cui Gurnah rielabora questo patrimonio, restituendoci grazie alle interrelazioni linguistiche riprodotte nel testo il sincretismo culturale dei territori che fanno da sfondo al romanzo. Sia Yusuf sia i personaggi che ruotano attorno allo zio sono di religione musulmana, parlano arabo ma comprendono e possono esprimersi anche in swahili: Yusuf lo fa meglio di altri, e funziona così da interprete durante le spedizioni commerciali, cui partecipano alcuni personaggi indiani che parlano bengali, ma anche swahili e un po’ di arabo.

È probabile che, tra queste pagine, la memoria di Gurnah vada anche al saggio di Ngugi Wa Thiong’o, Spostare il centro del mondo (Meltemi) in cui lo scrittore keniota proponeva di istituire lo swahili quale unica lingua ufficiale in tutti i paesi dell’Africa orientale, anche nelle istituzioni e nelle accademie, a dimostrazione di quanto questa lingua sia sempre stata veicolo di comunicazione fra regioni e comunità diverse, e – naturalmente – per contrastare il predominio dell’inglese. In appendice al romanzo, una nota del traduttore spiega come sia stato complesso lavorare su questa opera, scritta in inglese ma disseminata di parole arabe e swahili, all’insegna di un continuo code-switching: la scelta di includere un glossario per le parole di non immediata comprensione, e al tempo stesso di lasciarne tante altre non tradotte nel testo, sta a indicare come nei territori delle ex colonie l’inglese sia stato sottoposto a un processo di ibridazione che ha prodotto specificità linguistiche ormai consolidate, fatte di stratificazioni lessicali, versioni più o meno standard e altre creolizzate dell’inglese, una ibridazione di cui tutta l’opera di Gurnah è di notevole esempio.

Topos rivisitati

Avventurieri nel loro stesso continente, i personaggi esplorano l’entroterra, ribaltando il topos dell’europeo scopritore di terre sconosciute. Nel romanzo sono tanti i Marlow impegnati nel loro viaggio in un cuore di tenebra: parlano di popoli selvaggi senza Dio che adorano oggetti e animali strani, ma quanto dicono degli europei è ancora più eloquente: «si accaparravano le terre migliori senza pagare una perlina, di riffa o di raffa costringevano la gente a lavorare per loro, mangiavano qualunque cosa, anche le più schifose e indigeribili. Il loro appetito non conosceva né limiti né ritegno, erano come sciami di locuste».

Nella rilettura di Cuore di tenebra, una delle tante revisioni delle master narratives che Gurnah è abilissimo nel costruire, gli europei fanno pensare a tanti Kurtz la cui follia non è dovuta al contatto con i selvaggi, bensì alla loro brama conquistatrice, che impongono ai nativi africani e a altre minoranze etniche e religiose. Come Okongwo nel Crollo di Achebe, anche Yusuf è testimone di un epocale passaggio di poteri, ma diversamente da Okongwo non sa che strada prendere, da quale parte stare, e la sua fame di esperienze e di novità fa sì che sia ancora e sempre alla ricerca di un suo possibile nonché sognato Paradiso.