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Roberto Iannilli, anima ribelle sopra le vette

Roberto Iannilli, anima ribelle sopra le vetteRoberto Iannilli

Alpinismo Il ricordo di un alpinista formidabile, tra i massimi esperti di arrampicata in Italia. Uomo gentile e generoso, idealista, comunista convinto, con un senso profondo di giustizia che lo portava a schierarsi ancora. E una grande autoironia. Epiche le sue solitarie sul Gran Sasso, dove ha lasciato tracce indelebili nelle enormi pance strapiombanti della Est del Corno Piccolo. È morto il 21 luglio scorso sulla Nord del Monte Camicia insieme al suo compagno di cordata, Luca D’Andrea

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 7 agosto 2016

Ci eravamo incontrati l’ultima volta al direttivo dell’Associazione Alpinisti del Gran Sasso (AAGS), al solito ristorante a L’Aquila, l’11 luglio. Avevamo discusso sui vari punti all’ordine del giorno, la targa alle migliori salite sul Gran Sasso, il premio letterario… c’era un fermento di iniziative che bollivano in pentola e in tutte, Roberto aveva esposto il suo pensiero. Era l’ultimo direttivo presieduto da lui, prima che iniziasse l’estate. Poco dopo, alla fine del pranzo, lo abbracciai forte, senza saperlo, per l’ultima volta. Mi guardò quasi sorpreso, come se non servisse, tanto ci saremmo rivisti presto, tra le rocce del Gran Sasso, il luogo comune dei nostri sogni…

Erano passati parecchi anni dalla spedizione nella Miyar Valley. Avevamo festeggiato i nostri compleanni, 100 anni in due, quel luglio del 2004 sul volo verso l’India. Oggi, 25 luglio 2016, Roberto è tornato a casa, sotto il grande tiglio, nella sua terra, circondato da decine di amici, dalla moglie Patrizia, dalla figlia Giuliana, dai parenti, ognuno donatore di piccole testimonianze, di ricordi, di parole semplici, che hanno suscitato in tutti noi profonde emozioni.

A ciascuno aveva lasciato un pezzo di sé. Un ricordo, una battuta, una salita, il nome di una via, un giro in bici, una bevuta, un libro. A tutti aveva regalato qualcosa per cui valeva la pena ricordarlo. Qualcuno non gli ha perdonato l’azzardo, per la sua inquietudine, e la voglia di fuggire. Sono epiche le sue solitarie sul Gran Sasso, dove ha lasciato delle tracce indelebili sulle enormi pance strapiombanti della Est del Corno Piccolo… Da solo, tirandosi su piccoli ganci e dadini minuscoli ficcati in improbabili fessure, sospeso nel nulla a sfidare la gravità. A volte si accaniva per giorni, con caparbietà, fino alla cima, rientrando di notte al buio tra le creste rocciose del Corno Piccolo o sul Paretone al Corno Grande, dove spesso si rifugiava per giorni, come in un grembo, senza dare notizia di sé.

Una volta ci provai anch’io. Dovevamo allenarci per la spedizione ormai prossima nella Miyar Valley nelle profonde propaggini dell’Himalaya indiano. Allora mi ero sentito inadeguato e completamente incapace di affrontare quelle difficoltà, mentre lui era salito su quei pochi punti di appoggio, su delle fragili staffe con l’eleganza e la maestria di un vero climber dell’artificiale. Altre volte ci cimentammo insieme sul Monolito ed io ero attonito nel vederlo salire in libera tratti verticali totalmente sprotetti, con un vuoto sotto di alcune centinaia di metri… La riuscita della spedizione dipendeva in parte anche da me. Dovevamo completare una via di roccia e misto iniziata l’anno precedente, su un’enorme parete inviolata, di almeno mille metri, a oltre seimila metri di quota. Sarebbe stata una vera sfida per me, piccolo alpinista di provincia.

Riporto un brano dal mio diario della spedizione: «È come se fossimo ritornati dal cielo, quattro notti, lunghe e fredde notti trascorse oltre il campo avanzato, a 4600 metri… Un senso di profondo isolamento. Quattro giorni di fatiche immani per attrezzare la via di salita alla vetta, del tutto ignota e mai scalata, di almeno 14/15 tiri.
Avevamo attaccato lo sperone terminale. Il tempo però era peggiorato, aveva iniziato a nevicare ed eravamo a oltre 5000 metri. La roccia era diventata improvvisamente viscida e pericolosa e violente scariche elettriche si abbattevano sulle creste. Eravamo costretti a rientrare, ma ormai era troppo tardi. Avevamo una sola frontale. Non ce l’avremmo fatta a rientrare fino al punto di calata sulle corde fisse, era troppo pericoloso, brancolavamo ormai al buio alla ricerca di un riparo. La notte e la nebbia erano calate, eravamo smarriti, senza punti di riferimento. Finalmente abbiamo scorto una cengia larga qualche decina di centimetri, appena sufficiente per starci in piedi in due.

Ormai era calata la notte e ci sentivamo persi. Ci siamo appoggiati ad una placca di roccia fredda e bagnata, ficcando i piedi negli zaini per proteggerli dal rischio di congelamento. Il freddo aveva preso il sopravvento sulla tempesta e la temperatura era scesa rapidamente. Roberto stava quasi piangendo per il dolore ed il freddo nel corpo e ai piedi, ci tenevamo stretti l’un l’altro per scaldarci, ma il freddo era più forte del calore prodotto dal corpo, quasi non respiravamo… Le nove, le dieci, le undici, mezzanotte… Poco dopo le due aveva ripreso a nevicare, dentro aumenta il senso di terrore, eravamo senza protezioni, totalmente in balìa degli elementi. Rimanevano ancora delle ore infinite, mi riavvicinai a Roberto. Lui era riuscito a dormire. Avvertiva qualche principio di congelamento, a causa degli scarponi bagnati e induriti dal freddo che aveva avvolto nella bandiera della pace… Almeno era servita a qualcosa. Poco dopo si scorgevano nel buio i primi bagliori di luce ad oriente e cominciavamo a renderci conto di dove stavamo. Eravamo immersi in una immensa parete di massi rotolati a valle dalla vetta e noi, due piccoli esseri, persi fra essi. Poco dopo riuscii a scorgere l’unico punto di riferimento familiare, uno sperone su cui il giorno prima avevamo attrezzato una sosta di discesa. Appena una cinquantina di metri sotto di noi. Il sole lentamente sorgeva e irradiava le montagne e il sangue ricominciava a circolare nel nostro corpo intorpidito… era come se la vita ritornasse lentamente dentro di noi. Era come uscire da un lungo incubo notturno senza via di scampo, assolutamente reale. Di questa notte serberò tutto dentro finché vivrò».

Pochi giorni dopo avevamo raggiunto finalmente la vetta, nominata Iris Peak, a circa 5700 metri di quota, a ricordo di una donna, Iris, compagna di Pietro, un membro della spedizione. Roberto ci aveva portato la bandiera della Pace, e la lasciò sventolare libera. Rientrammo rapidamente al campo base, attraverso le corde fisse e ritrovammo i nostri amici, i portatori, Pietro, i pastori himalayani che avevano colorato le nostre giornate. La sera festeggiammo con una bottiglietta di Fernet che Roberto aveva gelosamente custodito nel suo zaino che ci ricordava la nostra vita di tutti i giorni, le nostre famiglie, il profumo familiare della cucina, delle docce calde, delle tante piccole cose che ci mancavano ma da cui rifuggivamo puntualmente ad ogni ritorno.

Io ero cresciuto un poco dopo quella spedizione, mi sentivo un Alpinista, di quelli seri, lo dovevo a lui, alla sua generosità, al suo saper dare a modo suo, senza orpelli e grancasse. La prima volta che lo incontrai aveva in mano un foglio di carta quadrettata con il progetto di una via di montagna. Ci guardammo negli occhi e ci eravamo piaciuti, con un semplice sguardo. Mi aveva parlato del suo progetto di una spedizione in Himalaya, ne fui subito affascinato e gli chiesi timidamente se potevo andare con lui.

Roberto era un comunista, di quelli veri, col marchio doc. Si aggirava con la sua Lotus e professava fede di comunismo, portava la bandiera del Che in cima alle montagne, in apparente contraddizione, ma lui era così, non si nascondeva… Un idealista nostalgico, un veterocomunista con dentro ancora una energia vitale che lo portava a difendere i più deboli, a sposare la causa palestinese, a lanciare strali contro una certa politica e serbava dentro un profondo senso di giustizia che lo caratterizzava e lo portava a schierarsi ancora, con un’etica personale, autentica, forte, sincera. Ma con un senso profondo dell’autoironia. Era un anti narcisista…

Roberto aveva scalato in vari gruppi montuosi ed effettuato molteplici spedizioni in Sud America, Himalaya e Nord America. Sul Corno Grande ha aperto vie nuove con difficoltà dal TD- all’ ED+. Varie decine di vie aperte sulla Est e sulle Spalle del Corno Piccolo, sul Paretone, sull’anticima della vetta Orientale del Corno Grande e sui Pilastri di Pizzo d’Intermesoli.

Nel 1999, sul Monte Camicia l’”Eiger dell’Appennino”, Roberto ci era stato più volte. Nel 1999 aveva lasciato un segno indelebile con l’apertura di una via estrema, di almeno duemila metri di sviluppo, «Vacanze Romane», insieme al suo caro amico Ezio Bartolomei, anch’egli deceduto pochi anni dopo.
Roberto era come le sue mani: nodose, artritiche, piene di piaghe, ma potenti. Sul Monte Camicia è caduto, come un vero eroe in guerra.
Ti saluto, caro amico di sempre.

*psicoterapeuta, alpinista, membro del direttivo Associazione Alpinisti del Gran Sasso

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