Belmaan Oussama, un ragazzo algerino di 19 anni, il 24 maggio è stato fermato e portato nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza. Il fermo è stato convalidato nei giorni successivi dal giudice di pace di Melfi in un’udienza che si è svolta in una palazzina che si trova all’interno del Cpr. Da allora era in attesa di essere espulso dall’Italia. Alcuni giorni fa ha tentato il suicidio ingerendo dei pezzi di vetro ed è stato ricoverato all’Ospedale San Carlo di Potenza. Poi è stato riportato nel Cpr, «senza monitorare la sua condizione e, molto probabilmente, senza la richiesta di una nuova visita di idoneità al trattenimento, come espressamente richiesto dalla normativa», sostiene in una nota la Coalizione per le libertà civili (Cild), una rete di organizzazioni della società civile che ha più volte denunciato le violazioni dei diritti nei Cpr italiani.

La sera di lunedì Oussama è morto. Alcuni compagni di detenzione sostengono che è stato vittima di un pestaggio e che, nonostante le ripetute richieste di aiuto, non è intervenuto nessuno. La versione ufficiale è che il decesso è avvenuto per arresto cardiaco. Sta di fatto che, poiché i detenuti possono uscire al massimo nel corridoio davanti alle celle, non hanno potuto portare Oussama all’infermeria, che si trova a pochi metri di distanza, nel piazzale dell’«area ristretti».

Appena nel centro si è diffusa la notizia del decesso, il centinaio di persone recluse nel Cpr hanno protestato per tre ore, tentando di dare fuoco a quattro dei quattordici moduli prefabbricati che ospitano le celle. Uno di questi è completamente bruciato, mentre gli altri roghi sono stati spenti dai vigili del fuoco.

La versione del pestaggio è stata smentita ieri mattina dal procuratore della Repubblica di Potenza Francesco Curcio, che ha aperto un’indagine. Il pm ha detto che il migrante morto «non è stato picchiato, ma ciò non esclude alcuna fattispecie di reato», compresi «l’omicidio doloso, colposo e un atto autolesionistico».

Il Cpr di Palazzo San Gervasio è già sotto inchiesta della stessa procura, che a gennaio ha indagato una trentina di persone, tra cui un ispettore di polizia, diversi medici e due amministratori della società Engel che lo ha avuto in gestione fino a luglio del 2023. L’inchiesta riguarda maltrattamenti sui migranti che sarebbero avvenuti tra il 2018 e il 2022. Secondo gli investigatori, gli indagati avrebbero usato in «maniera massiva» e «senza che ce ne fosse bisogno» alcuni psicofarmaci, in particolare il Rivotril, un antiepilettico prescritto anche come tranquillante, per sedare i detenuti e «risolvere le situazioni di tensione provocate dalle forme di disagio psicologico e di dipendenza». La gestione del Cpr è stata poi affidata a Officine Sociali, una cooperativa di Priolo Gargallo, in provincia di Siracusa.

«Il problema è che lì dentro comanda la polizia, che guarda solo agli aspetti legati alla sicurezza», dice l’avvocato Arturo Covella, che difende alcuni reclusi. I migranti non possono uscire all’aperto, neppure nel piazzale davanti alle celle, non ci sono spazi di socialità e non c’è neppure una mensa. Il cibo viene portato da un catering esterno e i detenuti lo ricevono nelle loro celle. L’unico svago, per chi vuole, è di tanto in tanto una partita di calcetto in un campetto costruito tra le sbarre. Per questo la direttrice Catia Candida e la psicologa Maria Monetti, durante una visita che chi scrive ha fatto nel centro alla fine di aprile, hanno ammesso che molti danno in escandescenze.

Il Cpr di Palazzo San Gervasio, che si trova al confine tra la Basilicata e la Puglia, nacque nel 2011 come tendopoli per ospitare i migranti della cosiddetta «emergenza Nordafrica». «Lo chiamiamo la voliera perché era recintato con delle reti alte cinque metri che lo facevano somigliare a un’enorme gabbia per uccelli», dice Gervasio Ungolo dell’Osservatorio migranti della Basilicata. Le tende sono state poi trasformate in moduli abitativi che in inverno non sono riscaldati e in estate diventano roventi, e la rete è diventata un muro di cinta, che è sorvegliato dai militari dell’Operazione Strade sicure, mentre all’interno ci sono poliziotti, carabinieri e anche finanzieri.