Dopo ogni strage c’è sempre chi l’aveva detto. Ma non sempre l’aveva detto con una mail certificata, una pec, indirizzata al prefetto di Napoli e ai sindaci dei due comuni confinanti, il primo cittadino di Lacco Ameno e la commissaria di Casamicciola che da domenica è anche commissaria straordinaria per l’emergenza. D’altra parte non sempre l’autore dell’allarme è un ingegnere, ex funzionario del servizio tecnico del «demanio e protezione» della regione Campania ed ex sindaco di Casamicciola negli anni Novanta. L’ingegner Giuseppe Conte, 72 anni, ci apre il portone della sua casa nella parte bassa del paese, in una zona dove il fango non è arrivato, e mostra tutte le carte.

Di denunce sui pericoli causati dal dissesto idrogeologico ne ha fatte tante, negli anni. Poi il 30 settembre scorso e di nuovo il 22 novembre, vale a dire quattro giorni prima della frana che all’alba del 26 ha straziato vite, case e territorio, ha scritto alle autorità ricordando che gli alvei naturali restavano abbandonati anche dopo l’alluvione del 2009 che uccise una ragazza, trascinandola in mare. «C’è quindi l’eventualità concreta di una nuova alluvione nelle stesse zone – ha scritto l’ingegnere Conte – per cui si chiede di porre in essere determinate azioni di protezione della popolazione, che non può essere il semplice avviso di un’allerta meteo».

Allerta che era effettivamente arrivata, allerta arancione, nel pomeriggio di venerdì, annunciando forti piogge, rischi di «fenomeni franosi e caduta massi» e dunque la chiusura delle scuole per il giorno successivo, che era un sabato. Quale poteva essere la «misura di protezione della popolazione»? Si poteva immaginare lo sgombero delle abitazioni a rischio che nel comune sono centinaia? La procura di Napoli ha aperto un fascicolo di indagine sulle cause della strage e la vicenda dell’allarme dell’ex sindaco è finita lì dentro. Ma la storia che ha portato otto persone a morire di pioggia, tre sono ancora i dispersi, è molto più lunga.

L’ABUSIVISMO. A Ischia chi ha un terreno costruisce una casa, chi ha una baracca prova a farne una villetta. È frequente che gli abitanti abbiano più di una casa, il che è una fortuna adesso che in oltre duecento sono stati sgomberati. Non sono alloggi di pregio e non si tratta di gente ricca, sono case che molto spesso non si possono vendere perché non sono in regola e che vengono affittate in estate. Sono l’impronta sul territorio del passaggio dall’economia contadina a quella turistica. Sono case costruite male, perché costruite in fretta, il condono mette a posto le carte ma non l’ingegneria: andrebbero abbattute e, eventualmente, rifatte. Alcune sono costruite in aree di documentato rischio idrogeologico. Ma non tutte, neanche tra quelle trascinate a valle sabato all’alba.

La carta aggiornata del rischio frana pubblicata dall’autorità di bacino segna alcune delle case che si sono trasformate in tombe per i loro proprietari in zona bianca. Com’è possibile? «La quantità di terreno, alberi e massi che si è distaccata è stata enorme. È possibile che proprio la dimensione della massa abbia portato la frana fuori dall’alveo storico», la cava detta Fontana, spiega la geologa Filomena Miragliuolo. In ogni caso, siamo ai piedi di una montagna di argilla e pomici, come potevano sentirsi sicuri?

UN TRAGICO TRASLOCO. L’unica domanda alla quale si può dare una risposta che vale per diverse delle vittime di sabato è più precisa: perché erano andati ad abitare lì su? La risposta per la famiglia Monti – padre e madre dispersi, tre figli tra i morti accertati – e la signora Nina, nata in Bulgaria e morta appena diventata cittadina italiana, è perché le loro case erano state danneggiate dal terremoto dell’agosto 2017. E sono ancora inagibili dopo più di cinque anni. Per questo i morti e tantissimi tra i vivi e sfollati dalla zona di piazza Maio si sono trasferiti nella parte alta di via Santa Barbara o ancora più in alto, in via Celario. Riadattando, aggiustando, allargando, appesantendo vecchie case o baracche. Senza alcuna sicurezza.

Di tutti quelli che hanno avuto la casa distrutta o danneggiata dal terremoto del 2017 si occupò il governo Conte 1, quando si trovò davanti il problema di riconoscere gli indennizzi anche alle abitazioni irregolari non condonate. Da qui il decreto Genova del settembre 2018 che fu soprattutto un decreto Ischia (20 articoli contro 16 nel testo di legge) che permise di applicare le norme del condono più permissivo, quello del 1985, l’unico che consentiva di sanare anche case costruite in aree vincolate. Più importanti ancora delle norme, però, sono i tempi: la gran parte delle abitazioni abusive sta lì semplicemente perché è in attesa di risposta alla domanda di condono (per questo Conte può difendersi sostenendo che sono state accolte solo 6 domande, dovrebbe dire quante sono state respinte). Ma questo riguarda l’articolo 25 di quel decreto legge. Interessante è anche leggere l’articolo successivo.

LA MANCATA MANUTENZIONE. L’articolo 26 (comma 2 lettera d) del decreto Genova stabilisce che il commissario straordinario per la ricostruzione deve «predisporre e approvare un piano di interventi sui dissesti idrogeologici, con priorità per dissesti che costituiscono pericolo per centri abitati ed infrastrutture». Il commissario (dal febbraio 2020) è Giovanni Legnini che ieri mattina è venuto in piazza Maio a Casamicciola a verificare la situazione. Gli abbiamo chiesto come mai di quel piano non c’è traccia. «Andrebbe chiesto al mio predecessore», ha detto prima, poi ha aggiunto che «è evidente che il piano di ricostruzione e il piano di contrasto al dissesto idrogeologico vanno insieme».

Contrasto al dissesto idrogeologico qui significa una cosa soprattutto: manutenzione degli alvei. Com’è stato fatto per decenni dopo l’alluvione del 1910 e come si sarebbe dovuto fare ancora, visto che nel 2010, tre mesi dopo l’ultima alluvione con una vittima, un’ordinanza del presidente del Consiglio dei ministri stanziò 180mila euro per «interventi di mitigazione del pericolo». E poi nel 2012 la legge di bilancio nazionale stanziò altri 3,1 milioni per la «sistemazione idrogeologica del comune di Casamicciola». Soldi serviti solo a innescare un inconcludente rimpallo di responsabilità tra regione, comune, città metropolitana e e da ultimo commissario straordinario. Anche su questo dovrà accendere un faro la procura che indaga per disastro colposo.

I NUOVI RISCHI. Nelle sue mail inascoltate, l’ex sindaco Conte aveva colto perfettamente i pericoli anche se non parlava del costone franato sabato, ma di quello che sarebbe potuto succedere lungo i canaloni ostruiti. Uno in particolare, quello de La Rita, una zona immediatamente più in basso di piazza Maio, epicentro del terremoto 2017. Lungo l’alveo già strozzato dal tempo e dall’incuria, oltre che dai rifiuti, da anni è crollato quello che fu uno dei più rinomati alberghi termali del posto, l’hotel S.Rita. Il soccorso alpino intervenuto dopo l’ultima alluvione, senza vittime, del febbraio dell’anno scorso, ha denunciato la situazione di enorme rischio. Anche perché al fondo e nei dintorni di quell’impluvio nel comune di Lacco Ameno ci sono una scuola media, una centrale elettrica e persino l’unico ospedale dell’isola, il Rizzoli, nella cui camera mortuaria sono adesso ricomposti i corpi delle vittime della frana. Quattro anni fa, con il 34% di ribasso, l’ente Città metropolitana di Napoli ha assegnato l’appalto alla ditta vincitrice, ma è tutto fermo perché si è scoperto solo dopo che che parte dei terreni sono rivendicati da un privato.

Intanto ieri il fango di Casamicciola ha restituito un solo corpo dei quattro che ancora si cercavano, quello di Michele Monti, quindici anni.