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Rinnovamento nella continuità (Natta e il suo Pci)

In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 19 dicembre 2017

Alessandro Natta si definì fino alla fine «illuminista, giacobino e comunista». Tre parole diversamente maledette: potrebbero far pensare all’estremismo e alla faziosità. Invece Natta era esattamente il contrario.

Gli piaceva polemizzare e non era tenero con i compagni che, a suo giudizio, parlavano senza riflettere e senza la conoscenza delle cose, ma sembrava la personificazione del rispetto per gli avversari e di un modo civile di intendere la politica come servizio, come esigenza della mediazione, e dell’ancoraggio a una seria preparazione culturale.

Caratteristiche personali, ma che appartenevano anche a un «sentire comune» abbastanza diffuso nel vecchio Pci. Lo ha osservato Emanuele Macaluso, presentando un libro che a Natta, con il sottotitolo Una vita esemplare fra cultura e politica (De Ferrari 2017) è stato dedicato da Roberto Speciale.

Macaluso ha criticato recenti commenti apparsi sul Corriere della sera, nei quali si è parlato del Pci come di un partito quasi «antisistema», impermeabile alla concezione liberale dello stato, paragonabile addirittura al Movimento 5 stelle.
Qualcosa di inaccettabile:

Macaluso ha insistito sulle motivazioni che portarono il giovane ufficiale dell’esercito Alessandro Natta, reduce dal campo di prigionia tedesco, a iscriversi al partito di Togliatti. Quel Togliatti che, tornato in Italia, disse che non si sarebbe «fatto come in Russia» ma che si abbracciava l’idea di una «democrazia progressiva». Visione politica che si sarebbe ancora più strutturata con l’affermazione del «valore universale della democrazia» da parte di un Berlinguer circondato dal gelo della nomenclatura brezneviana.

Natta ebbe la sfortuna di dover essere segretario dopo la morte di Berlinguer.

Si era già ritirato, qualche anno prima, dall’azione «in prima linea» al vertice, rifugiandosi a presiedere la «commissione di controllo»: ma fu considerato l’unico – anche da altri segretari in pectore come Napolitano e Lama – capace di assicurare la continuità – e l’unità del partito – pur favorendo il necessario rinnovamento.

Molti volevano cambiare nel Pci, ma le idee sul cambiamento erano assai divaricate. La «destra» pensava a un approdo apertamente socialdemocratico, la «sinistra» – pur tra differenze non piccole – voleva lo sviluppo delle idee dell’ultimo Berlinguer, cercando nuovi fondamenti nell’ambientalismo, il femminismo, il pacifismo.

Natta riuscì a fatica a tenere insieme queste tendenze, promuovendo una leva di dirigenti più giovani: fece vicesegretario Occhetto e chiamò in segreteria prima D’Alema e Livia Turco e poi Fassino, Petruccioli e altri.

Il libro di Speciale si sofferma sul modo poco civile in cui fu sostituito da Occhetto dopo un malore che lo costrinse in ospedale. Un «cambio» per la verità chiesto da molti, esplicitamente, tra i dirigenti locali e nazionali. La sua tendenza «mediatrice» e una leadership assolutamente non «personale», costitutivamente ostile ai modi della mediatizzazione politica ormai incombente, lo facevano apparire più un ingombro che una garanzia.

Natta ne fu molto amareggiato, e trovò il modo di dirlo.

Non sopportò poi i modi della «svolta», abbandonando platealmente i lavori del congresso che cancellò il nome del Pci. Nella sua Imperia coltivò interessi storici e letterari, scrivendo su Buonarroti, Serrati, Boine, Einaudi.

L’anno prossimo ricorrono i cento anni dalla nascita. Un’occasione per evitare celebrazioni vuote, e per ripassare un po’ la storia della sinistra italiana nei suoi luoghi più rimossi.

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