Come in un maggio di tanti anni fa a Milano un altro prima di lei disse «Dio me l’ha data e guai a chi me la tocca», intendendo la corona, Giorgia Meloni ripete che il popolo le ha dato il mandato di riformare la Costituzione e guai a chi glielo tocca. Cercherà, dice, un’intesa con le opposizioni (o con una opposizione), ma se non la trova farà da sola, dice, «per non venire meno agli impegni con i cittadini».

Proporsi di modificare la Costituzione radicalmente, cambiando addirittura forma di governo, si può anche fare, per quanto sia discutibile che uno stravolgimento profondo dell’assetto istituzionale sia compatibile con lo strumento dell’articolo 138, pensato per puntuali «revisioni». Però per cambiare bisognerebbe conoscere da dove si parte. E per la Costituzione che abbiamo i cittadini elettori non hanno dato né a Meloni né al centrodestra alcun mandato a riscrivere le regole comuni del gioco. Perché a settembre 2022 hanno votato per eleggere deputati e senatori, a loro volta incaricati di esprimere la fiducia al governo. E non è compito del governo riscrivere la Costituzione, neppure se dice di volerlo fare – ma questo è ovvio – non per se stesso ma per chi verrà dopo di lui.

L’opposizione avrebbe potuto ricordarlo con più forza. Invece aderendo al rito delle convocazioni della premier – a prescindere dalle affinità o divergenze nel merito – a rinunciato a smontarle il teatrino e in qualche modo l’ha legittimata nella sua pretesa di dare le carte.

Ma a proposito di mandato popolare, è proprio vero che Meloni può – e quasi deve, a sentir lei – procedere verso l’elezione diretta del presidente del Consiglio perché i cittadini l’hanno votata per questo? In realtà no. Dopo il giro di consultazioni di martedì, in effetti, la formula con meno contrarietà nelle opposizioni risulta essere il premierato. Nel senso che un gruppo di opposizione – o mezzo gruppo, visto che Calenda è assai meno deciso di Renzi – si è sfilato dal resto dichiarandosi favorevole a quello che loro chiamano «il sindaco di Italia». Meloni quindi ha spiegato che si orienterà verso una formula di quel genere per essere più inclusiva. Questo però vuol dire appunto mediare e quindi rinunciare alla sacralità del mandato elettorale. O l’una o l’altra.

In nessuno dei programmi dei quattro partiti di maggioranza è presente, neanche con un vago richiamo, un’ipotesi di scuola, un periodo ipotetico, la formula dell’elezione diretta del presidente del Consiglio. C’è per tutti – Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e anche Noi moderati – solo la soluzione del presidenzialismo, semi o integrale. Meloni dice: sì, però in quei programmi è indicato il problema al quale si vuole rimediare, l’instabilità. Per questo va bene anche l’elezione diretta del capo del governo. Ammesso che sia efficace, però, se il punto è trovare rimedio al problema le soluzioni possono essere anche altre, molte delle quali indicate dai partiti di opposizione negli incontri di martedì. In ogni caso Meloni si richiama alla purezza del mandato popolare per marciare spedita, anche da sola, però subito annuncia che intende non seguirlo.

Si può pesare, questo presunto mandato popolare? Si può, perché le elezioni del settembre 2022 hanno consegnato due risultati diversi, uno in termini di voto popolare e uno in termini di seggi parlamentari. La legge elettorale e le divisioni degli avversari hanno regalato al centrodestra il più grande premio di maggioranza che ci sia mai stato da quando le leggi maggioritarie sono arrivate in Italia. Meloni governa grazie al fatto che sono con lei quasi il 60% dei deputati e il 57% dei senatori, ma nel voto popolare le destre tutte insieme non sono arrivate al 44%. Dunque il suo è un mandato popolare di minoranza. Un non mandato. Se ha la forza per cambiare la Costituzione con la maggioranza assoluta (che è sufficiente, anche se poi si può chiedere il referendum), e se riesce a mettersi d’accordo, questo governo ce l’ha non come conseguenza del voto proporzionale ma per la distorsione maggioritaria che è presente nella legge elettorale.

Non è un calcolo solo teorico, ha risvolti assai pratici. Perché se si decidesse di far nascere una commissione bicamerale per le riforme – secondo uno dei tanti modelli, tutti diversi, sperimentati in passato -, questa andrebbe composta sulla base del voto popolare, quindi del proporzionale. E non sulla base della consistenza dei gruppi, drogata dal premio di maggioranza. Piccolo particolare: in una commissione che rispettasse il criterio proporzionale, le destra non avrebbero la maggioranza. Ma, appunto, il 44% dei (40 o 60 stando ai precedenti) componenti. Troppo azzardato? È possibile anche una mediazione, quella prevista dallo schema della commissione per le riforme proposta ai temi del governo Letta, che andò vicinissima a essere approvata. Una via di mezzo: la bicamerale sarebbe composta tenendo conto sia del voto alle liste che della dimensione dei gruppi. La destra avrebbe così la maggioranza, ma non sarebbe schiacciante.