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Ricordare Manzanar attraverso il bianco e nero

Ricordare Manzanar attraverso il bianco e neroAnsel Adams, famiglia Toyo Miyatake, 1943. Manzanar Relocation Center. Courtesy Library of Congress

Fotografia Una visita al più grande campo di internamento per giapponesi-americani

Pubblicato circa un anno faEdizione del 30 settembre 2023
Manuela De LeonardisMANZANAR (USA)

Il cielo azzurro, le nuvole bianche mutevoli ma compatte, in lontananza il profilo delle montagne della Sierra Nevada e ad est la Death Valley. Tutt’intorno il paesaggio piatto di Manzanar, nell’Inyo County (California), è attraversato nei mesi estivi dal vento caldo che solleva la sabbia. D’inverno il clima è altrettanto estremo con neve e gelo.

L’insegna «Manzanar War Relocation Center» è come quella fotografata da Ansel Adams nel 1943, il monumento funebre invece è originale. Sulla stele bianca, realizzata nell’agosto ’43 e posta nel cimitero, spicca la scritta in kanji «i rei to», memoriale per consolare le anime dei morti. Sulla sua base i visitatori depongono piccoli oggetti, senbazuru, monete, una pera, sassolini, un uncinetto di metallo dorato. Il resto è ricostruito giusto per dare una vaga idea di quello che fu. La torretta di controllo, il campo da basket, qualche baracca di legno (ognuno dei 36 blocchi conteneva 14 baracche di legno) e cartelli che indicano che su quel suolo polveroso c’erano mensa, orfanotrofio, ospedale, scuole, latrine, persino la redazione del giornale The Manzanar Free Press ma anche orti, giardini, la chiesa cattolica e quella protestante, il tempio buddista e quello shintoista. Vietata, neanche a dirlo, la circolazione di libri e pubblicazioni in giapponese.

Al Visitor Center di Manzanar viene ricostruita la memoria di «un errore», come affermò nel 1988 Ronald Reagan disponendo l’indennizzo di 20mila dollari a circa 60mila sopravvissuti giapponesi-americani dei campi d’internamento, pagato due anni dopo dal neoeletto George Bush con una lettera di scuse. Il 18 marzo 1942 come reazione all’attacco di Pearl Harbor (in realtà in California i pregiudizi razziali e le discriminazioni nei confronti dei giapponesi e di altre popolazioni asiatiche erano un dato di fatto già da tempo) Franklin D. Roosevelt firmò l’ordine esecutivo 9066 con cui oltre 120mila cittadini americani con «un antenato giapponese in qualsiasi grado» – uomini, donne e bambini – venivano dichiarati nemici e privati della libertà e dei beni.

Nel ’45, alla liberazione, per loro riadattarsi alla vita «normale» fu un trauma non meno grande. Come in molti altri casi, l’oblio fu un antidoto utile da entrambe le parti. Alla letteratura e alla fotografia il compito di far riaffiorare il passato. Tranne il graphic memoir Citizen 13660 di Miné Okubo pubblicato nel ‘46, gli altri libri sono usciti negli anni ’70 ma soprattutto dagli anni ’90, partendo da Farewell to Manzanar (1973) di J. Wakatsuki Houston e James D. Houston e The Bracelet (1976) di Y. Uchida per arrivare a Quando l’imperatore era un Dio (2002) di Julie Otsuka (autrice anche di Venivamo tutte per mare) e Il gusto proibito dello zenzero (2009) di Jamie Ford, solo per citarne alcuni.

Nella letteratura per ragazzi troviamo Weedflower (2006) di C. Kadohata, Dear Miss Breed (2006) di J. Oppenheim e le graphic novel They Called Us Enemy (2019) di G. Takei, J. Eisinger, S. Scott, H. Becker e Stealing Home (2021) di J. Torres e D. Namisato. In Seen and Unseen what Dorothea Lange, Toyo Miyatake, and Ansel Adams’s Photographs Reveal About the Japanese American incarceration (2022) di E. Partridge con le illustrazioni di L. Tamaki viene ripercorsa proprio la storia di Manzanar, primo campo d’internamento di guerra ad essere allestito negli Stati Uniti nel giugno 1941. Manzanar vuol dire meleto, perché nella seconda metà del XIX secolo era sede di una fiorente azienda ma la costruzione dell’acquedotto di Los Angeles con il prosciugamento delle acque della zona, deviate definitivamente nel ’29 verso la «città degli angeli», ne causò il totale declino.

Come campo di prigionia Manzanar arrivò a contenere circa 10.200 persone: fu chiuso il 21 novembre 1945, tre mesi dopo la fine della guerra. Le straordinarie immagini di tre grandi fotografi – Dorothea Lange (1895-1965), Toyo Miyatake (1895-1979) e Ansel Adams (1902-1984) – insieme ad altri reportage come quelli di Clem Albers e Francis Leroy Stewart (che come Dorothea Lange ebbero un incarico da parte della Wra-War Relocation Authority), rappresentano la più completa documentazione di un campo d’internamento e si trovano quasi tutte nel website del Manzanar National Historic Site.

Storie che s’intrecciano, quelle testimoniate da tutti loro. Adams nel ’43 decise di sua volontà di fotografare il campo con il permesso del direttore, il suo amico Ralph Merritt. Nel 1965 egli donò alla Library of Congress l’intero corpus fotografico che nella lettera del ’43 a Nancy Newhall aveva definito «politicamente caldo» (Letters 1916-1984, a cura di Mary Street Alinder e Andrea Gray Stillman, 1988), con i negativi e la prima edizione di Born Free and Equal (1944).

Mettendo da parte la fotografia di natura e paesaggio per cui era particolarmente noto, egli ritrasse soprattutto la gente, le scene agricole e le attività ricreative per dimostrare la grande ingiustizia subita dai «nisei» che, malgrado la disperazione, a Manzanar erano riusciti a dar vita a una comunità vitale.
La consapevolezza di quel sopruso attraversa l’intero reportage che il fotografo pubblicò nel libro Born Free and Equal che ricevette un benvenuto tutt’altro che caloroso dal pubblico americano («le copie furono bruciate pubblicamente per protesta» si legge in Manzanar. Commentary By John Hersey. Photographs by Ansel Adams a cura di P. Wright e J. Hersey, 1989).

Tra i ritratti scattati da Ansel Adams c’è anche quello di Toyo Miyatake, insieme alle immagini dell’interno della baracca della famiglia del fotografo di Los Angeles. Miyatake (numero 9975) riuscì a portare di nascosto la lente di un obiettivo; un amico carpentiere, nel campo, lo aiutò a costruirsi una macchina fotografica di legno, ma quando il direttore lo scoprì chiuse un occhio e gli permise di ricevere il materiale necessario affinché potesse continuare a fotografare, stampando le foto nella camera oscura improvvisata. Miyatake era arrivato a Manzanar nel maggio ’42 con la moglie e i quattro figli e fu tra gli ultimi a lasciare il campo, proprio per l’urgenza di documentare ogni momento.

Le sue foto sono particolarmente intense, come quelle di Dorothea Lange che nel 1942, malgrado pressioni psicologiche, divieti e censure (niente torri di controllo, guardie e filo spinato), con l’aiuto della giovane assistente Christina Clausen Page, lavorò 16 ore al giorno, 7 giorni su 7 per quattro mesi e mezzo. La sua strategia fu di «dimostrare la rispettabilità, l’americanismo, l’etica del lavoro, la buona cittadinanza e i risultati di quelle persone che ora vengono trattate come criminali.

Ha mostrato bambini che leggono fumetti americani, fanno il saluto alla bandiera, giocano a baseball; casalinghe che avrebbero potuto essere Betty Crocker: adolescenti vestiti alla moda più di tendenza; giovani in uniforme dell’esercito americano. Questo era un approccio antirazzista per lo standard dell’epoca: invocare l’ideale del melting pot in cui gli immigrati diventano identici a tutti gli altri americani», scrive Linda Gordon in Dorothea Lange. A life beyond limits, (2009), riprendendo argomenti trattati anche in Impounded. Dorothea Lange and the Censored Images of Japanese American Internment (2008) di cui è coautrice insieme a Gary Okihiro.

Consegnato il lavoro, la fotografa rivide quelle immagini solo nel 1964, un anno prima della morte, quando già molto malata visitò gli Archivi nazionali. «Si era preparata ad avere basse aspettative perché aveva compromesso i suoi standard fotografici per registrare tutto ciò che poteva. Per una volta ha allentato un po’ la sua tendenza all’autocritica nei confronti di quelle foto: «Non mi ero mai sentita a mio agio riguardo a quel lavoro sulla rilocazione di guerra… le difficoltà nel farlo erano state immense… ma davvero è sorprendente quello che ho fatto… Dio se ho lavorato… e alcune sono belle, alcune davvero avvincenti, non moltissime ma ci sono anche quelle reali

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