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Richard Wagner, tra il sonno e il fuoco, si scioglie la matassa dell’ira

Richard Wagner, tra il sonno e il fuoco, si scioglie la matassa dell’iraArthur Rackham, illustrazione tratta da «L’oro del Reno e la Valchiria», Heinemann, 1910

Grandi dialoghi/3 Tra i momenti più alti della storia musicale, l’epilogo della «Valchiria» oppone il dio Wotan alla figlia prediletta Brunnhilde. E l’orchestra rende eloquenti i sottintesi

Pubblicato circa un anno faEdizione del 6 agosto 2023

Dopo il fallimento della rivoluzione del 1848, che lo aveva visto coinvolto sulle barricate di Dresda accanto a Bakunin, Richard Wagner si immerge in un tourbillon di letture, da cui ricava l’idea di un dramma musicale sul mito di Sigfrido, l’eroe senza paura tradito dagli dèi e dagli uomini. Ma presto gli è chiaro che un’opera non potrà bastare a illuminare il personaggio: per capire Sigfrido bisogna risalire alla colpa originale che ne segna il destino. Ecco quindi che Wagner scrive testo e musica per un ciclo di ben quattro opere, propriamente un prologo (L’oro del Reno) e tre giornate (La Valchiria, Sigfrido e Il crepuscolo degli dèi) accomunate dal titolo complessivo di Ring, Anello del Nibelungo: dove l’idea di ‘anello’ allude non solo a un oggetto cruciale dell’intera vicenda, ma anche al pensiero circolare e ciclico che salda insieme i diversi titoli, in qualche modo unendo dramma e romanzo di formazione, tragedia e commedia, umano e divino.

Le pagine finali della Valchiria sono tra i momenti più alti di tutta la storia della musica e mettono uno di fronte all’altra il dio Wotan e la figlia prediletta, Brunilde, una delle nove valchirie il cui compito è combattere accanto agli eroi e, in caso di loro sconfitta, portarne lo spirito nel Walhalla. Nell’atto precedente Brunilde si è trovata di fronte a una scelta così difficile da indurla, cosa inaudita, a disubbidire agli ordini del padre: anziché lasciar morire Siegmund, figlio a sua volta di Wotan e di una donna terrena, Brunilde ha cercato di proteggerlo e Wotan è dovuto intervenire di persona per spezzare la spada che lui stesso aveva procurato al figlio.

All’inizio del duetto (parzialmente riportato qui accanto) che avvia l’opera verso la sua conclusione, Wotan è furibondo perché, dopo essersi aperto all’unica persona su cui credeva di poter contare, se ne è sentito tradito: Brunilde ha agito di testa propria, contro il volere del padre. Nel corso del dialogo, tuttavia, sentiremo la furia del dio placarsi nell’ascoltare le ragioni della figlia: l’affetto e le appassionate motivazioni di lei scalfiscono poco per volta la corazza dello sdegno paterno. Se tutto il Ring è una continua metamorfosi, qui in particolare si raggiunge un grado di reattività psicologica degna dei più sottili analisti; a concretizzare questa dimensione di scavo e di mutamento interiore provvedono gli interventi dell’orchestra, che rivelano i sottintesi del pensiero e disegnano una sorta di diagramma dell’anima.

Il dialogo comincia nel silenzio mortale seguito al fuggi fuggi spaventato delle valchirie. In aria è rimasto soltanto un filo di suono che gira su se stesso: è il tema della collera di Wotan, così cupo e illividito quando arriva al clarinetto basso da non aver quasi più risonanze. La voce di Brunilde risuona invece sulle prime nuda e inerme, priva di appoggio in orchestra; ed esordisce nel registro più scuro per poi salire con timore, ma sempre più sicura e convinta dei suoi pensieri. La scena, che si concluderà con un epilogo sinfonico tra i più suggestivi, intrecciando i temi del sonno e del fuoco, si apre così con l’essenzialità di un antico recitar cantando, quasi spoglia di strumentazione. Come Giobbe, anche Brunilde costringe il dio a rispondere alle sue domande: sa bene quanto Wotan amasse Siegmund (dietro la voce, mentre dice ‘quanto lo amavi’, spunta un flauto, come un fiore isolato) e quanto dolore gli arrecasse doverlo annientare. Mentre riaffiora il tema dell’annuncio di morte, su cui si era aperto l’incontro di Brunilde con Siegmund, la Valchiria racconta il turbamento provato di fronte al dolore dell’eroe, la scoperta della compassione (sentimento ignoto agli dèi, sempre superiori alle sventure umane). Sotto le sue parole il corno inglese si appropria della stessa linea su cui la voce di lei aveva esordito, sollevandosi a fatica: questo disegno, che i critici hanno spesso indicato come la “giustificazione di Brunilde”, prende coraggio e progressivamente sale verso l’alto, verso la luce. Ma Wotan è il dio sommo e non può agire per suo piacere: deve rispettare e far rispettare le leggi. Lo sdegno contro la disubbidiente è ancora ben vivo e la collera riaffiora a più riprese, ossessiva, nei bassi. All’asciuttezza dei precetti e al nichilismo paterno Brunilde – moderna Antigone – continua a contrapporre l’imponderabilità degli affetti: la sua difesa si fa sempre più commossa, mentre i mulinelli degli archi rispecchiano l’ansia e il fermentare delle emozioni.

Nel sentire questa perorazione vibrante e caparbia Wotan pare irritarsi ancor di più: lui che pensava di poter condividere il dolore con la figlia, ora si sente disperatamente solo. Le linee strumentali si avvitano intorno alla sua voce e si fanno contorte, aspre, instabili: lo sentiamo prigioniero di un viluppo da cui non sa liberarsi e che non trova sbocco. Nel frattempo è anche cominciato un sottile lavoro di fusione dei diversi temi, che si allargano e si distendono, sgrovigliando la matassa dell’irritazione: alla collera e al rispetto dei patti va a sovrapporsi il tema della giustificazione, che li erode dall’interno e se ne appropria.

Brunilde chiede di non infierire, Wotan risponde seccamente che la disubbidienza li ha divisi per sempre: lei diventerà donna – le dice – e apparterrà al primo uomo che, trovandola inerme nel sonno, la sveglierà. Prendendola un po’ alla larga, Brunilde avvia il discorso sulla stirpe di eroi, i Velsunghi, sua progenie, da cui sa che nascerà Sigfrido: al nominarlo, il tema che lo identifica si fa spazio e contagia la voce.

Il botta e risposta si fa serrato, le repliche ravvicinate, finché sentendo ricordare la spada – il cui tema risuona squillante alla tromba – Wotan dà sulla voce a Brunilde con violenza (‘heftig’), troncandole la parola in bocca e facendo ripiombare l’orchestra nella cupezza più sinistra, tra silenzi, fremiti degli archi, accordi fatali dei tromboni. La valchiria ora trema e la tensione del suo canto precorre l’espressionismo: mentre in orchestra i temi arditi delle valchirie (agli ottoni) si mescolano con le faville mobilissime del motivo del fuoco (sorta di danza acrobatica dell’ottavino), Brunilde supplica il padre di circondare con fiamme altissime la rupe dove dormirà il sonno magico che la minaccia: solo il più intrepido fra gli eroi possa giungere fino a lei, non il primo venuto.

Finalmente Wotan cede alla commozione e il gelo si scioglie nel più accorato e sofferto dei congedi, su una ripresa solenne del motivo delle valchirie: l’ultima perorazione di Brunilde gli richiama al cuore tutto ciò che ha amato, eroismo, speranza, arditezza. Anche le ultime resistenze, che si sfogheranno, concludendo l’opera, nello stupendo ‘addio’ alla figlia, crollano. Da qui in poi Brunilde resta in silenzio, ma il padre ha ben compreso i suoi desideri: nel baciarla per l’ultima volta, sottraendole così la divinità, le promette che solo uno potrà essere suo sposo. Quale sia l’identità di quell’uno ce lo rivela il prorompere, ai corni, del tema di Sigfrido.

Il grande, lirico addio finale con cui il dio si stacca dalla figlia ormai dormiente deve il suo impatto espressivo proprio al serrato confronto precedente, che a partire dal silenzio e dall’ostilità viene ricomponendo la verità più profonda degli affetti.

Il dialogo
Da Richard Wagner, «La Valchiria», 1856, prima esecuzione 26 giugno 1870, Monaco, National Theatre (Traduzione di Franco Serpa)

Brünnhilde È stato così infame ciò che ho fatto,

da dovermi punire con l’infamia?

Così vile il mio gesto,

da dovermi avvilire così profondamente?

Così disonorevole

da dovermi togliere l’onore?

Padre! Guardami in volto;

quieta lo sdegno,

frena il furore,

e chiara mostrami

l’oscura colpa

che … ti costringe

a scacciare la tua figlia più cara!

Wotan Chiedi al tuo gesto –

ti sarà chiara la colpa!

[…]

Ho creduto che tu avessi compreso

e ho punito la cosciente sfida;

ma vile e stolto

tu mi hai creduto!

Allora non dovrei vendicarmi dell’inganno,

tanto indegna saresti della mia ira?

B. Non sono saggia;

pure una cosa sapevo –

che tu amavi il Wälside.

Io sapevo il dissidio

che ti costringeva

a obliarlo del tutto….

W. Tu lo sapevi,

ma hai osato difenderlo?

B. Perché ho […] visto

ciò che tu non vedevi: –

Siegmund ho dovuto vedere.

… ho visto il suo sguardo,

ho sentito la sua voce;

di quell’eroe ho appreso

la miseria sublime; […]

E sicura nel profondo

della volontà che mi ispirava

in cuore questo amore …

ho tradito il tuo ordine.

W. Così tu hai fatto

quello che io tanto desideravo fare,

ma che ero doppiamente

costretto a non fare?

[…]

Devo allontanarmi da te…

divisi, mai più potremo

agire come intimi insieme…

B. … volevo soltanto

amare ciò che tu avevi amato.

Se … devi allontanare da te

la tua stessa metà,

mai non scordare, o dio,

che un giorno lei ti appartenne tutta!

… tu affonderesti te stesso,

se vedessi me schernita!

W. Tu hai seguito felice

la forza dell’amore:

segui ora dunque

colui che devi amare!

[…]

W. In forte sonno

io ti chiudo:

chi poi desta l’inerme,

a lui tocca in sposa colei che è svegliata!

B. […] Al tuo comando

divampi un fuoco;

ardenti fiamme

avvolgano la rupe;

divorino … il codardo che osi

salire alla rupe mortale!

W. Addio, intrepida,

superba figlia!

Tu del mio cuore

sublime orgoglio!

Addio! Addio! Addio! […]

se devo perdere

te che io amo,

arda per te un fuoco nuziale

quale per una sposa mai non arse! […]

E uno solo possa liberare la sposa,

che più libero sia di me, il dio!

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