Ribelli Houthi e governo si ritirano da Hodeidah. E l’Onu riapre i granai
Yemen Dopo due mesi e mezzo dall'accordo in Svezia, nella città portuale entra in vigore la fase 1. Intanto, mentre alla fiera delle armi di Abu Dhabi gli Emirati arabi siglano accordi da 1,3 miliardi di dollari, nei parlamenti di Londra e Washington il vento cambia giro
Yemen Dopo due mesi e mezzo dall'accordo in Svezia, nella città portuale entra in vigore la fase 1. Intanto, mentre alla fiera delle armi di Abu Dhabi gli Emirati arabi siglano accordi da 1,3 miliardi di dollari, nei parlamenti di Londra e Washington il vento cambia giro
La fase 1 della missione quasi impossibile dell’Onu pare archiviata: ieri il movimento Ansar Allah, espressione politica dei ribelli Houthi, e il governo ufficiale yemenita hanno raggiunto l’accordo per il contemporaneo ritiro dalla città di Hodeidah, su cui vige da due mesi la tregua.
Archiviata con ritardo (l’intes, siglata in Svezia, è vecchia di due mesi e mezzo), la fase 1 prevede il ritiro degli Houthi dai porti di Hodeidah, Saleef e Ras Isa, sul Mar Rosso, e quello delle forze governative dalla periferia della città portuale. Secondo fonti interne citate dalla Reuters, le parti hanno stabilito tempistiche e meccanismi per il ritiro che dovrebbe realizzarsi entro 7-10 giorni.
Una volta completato, si passerà alla fase 2, il ridispiegamento dei rispettivi combattenti e il passaggio del controllo della città in mano a non meglio definite «forze locali» sotto l’egida Onu. Dettagli non ce ne sono, ma se il piano strenuamente difeso dal Palazzo di Vetro dovesse concretizzarsi potrebbe dare a un po’ di sollievo alla popolazione sotto assedio di Hodeidah e alla riapertura effettiva del suo porto.
Uno scalo fondamentale: secondo per importanza del paese dopo Aden, da qui transita il 70% degli aiuti umanitari, finora con il contagocce a causa del blocco aereo e navale imposto dall’Arabia saudita (si deve passare per Riyadh per far attraccare i cargo) e dai timori delle compagnie navali.
L’accordo prevede l’apertura di corridoi umanitari verso la capitale Sana’a e la terza città yemenita, Taiz, e l’accesso ai Red Sea Mills, granai alla periferia di Hodeidah dove il World Food Programme ha stipato 50mila tonnellate di cereali, sufficienti a sfamare per un mese quasi quattro milioni di persone. Da settembre sono inaccessibili a causa degli scontri.
Si tenta così di mettere un freno alla peggiore crisi umanitaria – parole dell’Onu – a cui il mondo abbia assistito dalla seconda guerra mondiale: 50mila morti, 24 milioni di persone (l’80% della popolazione) che sopravvivono solo di aiuti, 85mila bambini con meno di 5 anni di età morti per malnutrizione, una media di due persone su 10mila uccise ogni giorno dalla fame. Una carestia prodotta dalla mano dell’uomo e di cui i paesi membri della coalizione a guida saudita, che nel marzo 2015 iniziò i bombardamenti in Yemen, sono i primi responsabili, coperti dal silenzio occidentale e riforniti dalle armi europee e americane.
Domenica l’ultima vendita: alla fiera militare di Abu Dhabi, che si concluderà il 21 febbraio, gli Emirati arabi hanno siglato contratti per 1,3 miliardi di dollari in armi. In bella mostra alla fiera anche armamenti già ampiamente utilizzati in questi anni in Yemen: carri armati, armi automatiche, veicoli blindati. Una fiera imponente con i suoi 1.235 espositori provenienti da 57 paesi diversi, a cui prendono parte anche aziende italiane, portate ad Abu Dhabi dalla fregata Margottini della Marina militare: ci sono tra gli altri Area, Benelli, Beretta, Fincantieri, Ht Hacking Team, Leonardo. Secondo i dati raccolti dalla Ue, nel 2017 l’Italia ha garantito licenze per l’export di armi agli Emirati per un totale di 27,2 milioni di euro.
Il primo venditore di armi verso il Golfo restano comunque gli Stati uniti, seguiti a ruota dalla Gran Bretagna. Proprio a Washington e Londra si concretizza però il crescente fastidio parlamentare per il coinvolgimento in Yemen. Nel fine settimana un durissimo rapporto della Camera dei Lord ha accusato Londra di vendita «illegale» di armamenti ai Saud. Pochi giorni prima la Camera Usa, da gennaio a maggioranza democratica, con 248 voti a favore contro 177 ha approvato la risoluzione che chiede la fine del sostegno statunitense alla coalizione anti-Houthi, finora garantito sotto forma di condivisione di intelligence, rifornimento in volo, logistica, truppe al confine.
I deputati hanno così rimediato a quanto successo a fine 2018 quando la Camera (ancora a maggioranza repubblicana) aveva affossato una risoluzione simile votata dai senatori con appoggio bipartisan. Ora entro 30 giorni toccherà al Senato esprimersi. Se dovesse essere confermata, finirà nello Studio Ovale. Se il presidente Trump la bloccherà si tratterà del primo veto della sua presidenza.
Ieri dalla fiera di Abu Dhabi il maggiore Hill, vice comandante dell’esercito Usa, ribadiva il sostegno alla campagna saudita, necessario – secondo lui – a «minimizzare il rischio di perdite civili» (sic). In tale contesto il parlamento Usa sta dando voce all’insofferenza per la politica mediorientale del tycoon, fatta di indefesso sostegno ad Arabia saudita e Israele in chiave anti-iraniana. Che sul campo si traduce nella quotidiana lotta per la sopravvivenza del popolo yemenita.
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