I cinque punti di Uncem “Agenda Montagna” riguardano il tema dell’abitabilità quotidiana dei territori montani, dalla centralità di chi in montagna vive e lavora, dalla necessità di tornare all’attenzione per i “paesi” (e non i “borghi”) delle terre alte. L’Agenda richiama la necessità di regole e servizi “curvati” sulle caratteristiche, vincoli e potenzialità dei territori montani. Non regole rigide, disegnate perlopiù sui parametri della pianura e dei contesti urbani; ma regole che seguono criteri di selettività specifici per i territori montani, nonché servizi di cittadinanza diffusi e accessibili, fino al riconoscimento istituzionale delle vocazioni e progettualità autonome della montagna.

Agricoltura, allevamento, ambiente, filiera bosco-legno-energia, enti locali, tecnologie appropriate, servizi: l’attività economica, in montagna, fa parte dell’infrastruttura sociale dei luoghi. È però un’economia trascurata dall’azione pubblica, pur svolgendo una funzione meritoria che andrebbe collettivamente sostenuta. Ma la montagna è “priva di voce” o, meglio, è stata privata della sua capacità di rappresentanza politica. Il disegno dei collegi elettorali, la soppressione delle istituzioni intermedie e il maldestro disegno che ha portato all’istituzione delle Città Metropolitane hanno annichilito il ruolo pubblico della montagna.

In un Paese come l’Italia dove la pianura è in netta minoranza e territorialmente concentrata (collina 41,6%, montagna 35,2%, pianura 23,2%), l’assenza della voce pubblica delle terre alte costituisce un impoverimento della sfera pubblica e della qualità del dibattito collettivo. Perché la montagna non solo deve ma può costituire oggi una leva importante per orientare scelte e direzioni pubbliche, che riguardano tutti. La mancanza di rappresentanza politica e di istituzioni intermedie rende molto difficile per il ceto politico investire sulle terre alte. Il meccanismo del consenso e del potere, cuore della politica, non si può attivare in assenza di “voti” od opportunità di carriera istituzionale.

Rimane la rappresentanza sindacale, come quella di Uncem, l’associazionismo politico-culturale locale, spesso fortemente autonomista, l’attività di alcune Fondazioni e l’attenzione della ricerca e degli studiosi, effettivamente cresciuta negli ultimi anni. Troppo poco. Senza rappresentanza politica, la montagna rischia di continuare a ballare da sola. Potrà essere il rifugio per alcuni, pochi, che se la possono permettere o sono disponibili a patirne i disagi. Ci sarà poi sempre più una montagna gentrificata, a uso e consumo dell’altra borghesia urbana. A volte sarà oggetto di sperimentazioni innovative o del reinsediamento vocazionale di comunità capaci di far rivivere qualche paese nelle Alpi o in Appennino.

Come abbiamo scritto nei vari volumi dell’Associazione “Riabitare l’Italia”, la montagna è parte del policentrismo del Paese, della sua ineliminabile diversità territoriale che le sfide di oggi rendono strategica. Per vedere queste possibilità, però, occorre liberarsi di immagini e rappresentazioni semplicistiche che distruggono l’autonomia dei territori montani, come quella del “piccoloborghismo” (rimando al volume che ho co-curato con A. De Rossi e D. Cersosimo, Contro i borghi, Donzelli, 2022). Così come occorre affrancarsi della montagna raccontata da Nuto Revelli ne Il mondo dei vinti, irripetibile scorcio sulla montagna che avevo perso la competizione con la pianura. Se non la faremo, forse avremo ancora qualche storia, individuale o collettiva, da raccontare. Ma non vedremo i fallimenti, le occasioni perse e la realtà di un territorio che è il grande rimosso del Paese.