«Return to Earth» in Giappone, il futuro è dentro di noi
La mostra «Return to Earth - Art & Ecology in Japan 1950-1980», secondo capitolo della collettiva «Our Ecology: Toward a planetary living», a cura di Martin Germann e Tsubaki Reiko, al Mori Art Museum di Tokyo fino al 31 marzo
La mostra «Return to Earth - Art & Ecology in Japan 1950-1980», secondo capitolo della collettiva «Our Ecology: Toward a planetary living», a cura di Martin Germann e Tsubaki Reiko, al Mori Art Museum di Tokyo fino al 31 marzo
Dietro la videocamera, alle prese con il suo primo lavoro video, Friends of Minamata Victims-Video Diary (1972) c’è Fujiko Nakaya, artista multidisciplinare partecipe della vita sociale e politica del suo tempo. Nakaya, fondatrice del collettivo Video Hiroba attivo a Tokyo tra il ’72 e il ’75 ha realizzato questo video di una ventina di minuti (girato in bianco e nero) che non è solo la documentazione della protesta e del sit-in nell’edificio della Mitsubishi Heavy Industries a Tokyo, quartier generale della Chisso Corporation. È l’affermazione stessa del potere del medium artistico nel denunciare la gravità di un disastro ambientale, che in questo contesto si focalizza sull’avvelenamento da mercurio causato (a partire dal 1956) dai prodotti degli impianti chimici sugli esseri viventi della città di Minamata, nella prefettura di Kumamoro in Giappone.
Del «caso Minamata», tra l’altro, rimane testimonianza anche nelle straordinarie e struggenti fotografie di W. Eugene Smith. L’opera di Nakaya, insieme ai lavori di undici artiste e artisti, nati in Giappone tra il 1911 (Okamoto Taro) e il 1959 (Nagasawa Nobuho) è esposta nel secondo «capitolo» Return to Earth – Art & Ecology in Japan 1950-1980 della mostra Our Ecology: Toward a planetary living, a cura di Martin Germann e Tsubaki Reiko, al Mori Art Museum di Tokyo (fino al 31 marzo). Un nuovo appuntamento per il museo di Roppongi, in occasione del suo ventesimo anno di attività, che attraverso un centinaio di opere realizzate da 34 artiste e artisti internazionali – tra cui Cecilia Vicuña, Ana Mendieta, Kudo Tetsumi, Monira Al Qadiri, Jae-Eun Choi, Sheroanawe Hakihiiwe, Ali Cherri, Asad Raza, Martha Atienza, Ian Cheng, Yuki Katsura, Apichatpong Weerasethakul – torna a indirizzare la riflessione sull’ecologia, in particolare su quale possa essere il contributo dell’arte contemporanea nel contrastare la crisi ambientale.
Nei quattro «capitoli» dell’esposizione l’osservatore ha modo di confrontarsi con i diversi aspetti del processo creativo, sul suo impatto sulla società e il farsi promotore di messaggi di estrema urgenza legati al tema dell’ecologia, dell’ambiente, dei cambiamenti climatici. «All is connected», tutto è connesso è l’introduzione al percorso esperienziale – «Tutto sul nostro pianeta, vivente o meno, fa parte di un ciclo e attraverso quel ciclo, tutto – tangibile e intangibile – è connesso», affermano i curatori – in cui l’approccio documentaristico delle fotografie a colori dell’artista concettuale Han Haacke incentrate sui sistemi socio-economici si orienta verso un’apertura del concetto stesso di ecologia come sperimentazione. Camminare sul cumulo di cinque tonnellate di frammenti di conchiglie di capesante che ricoprono il pavimento dell’installazione Muscle Memory (5 tonness) di Nina Canell (realizzata nel 2023) rappresenta un passaggio fondamentale nel ciclo naturale di un’economia che vede protagonista questi molluschi commestibili provenienti dall’isola dell’Hokkaido.
Non solo sono alla base della gastronomia locale fin dall’epoca Edo nella preparazione di piatti sofisticati come lo «shimokita miso kayaki» o più popolari come i «nigiri di capesante», ma i loro gusci frantumati vengono utilizzati come materia dell’edilizia per costruire spazi abitativi.
Da «The Great Acceleration», la grande accelerazione al quarto ed ultimo ’capitolo’ della mostra «The Future Is within Us», il futuro è dentro di noi la discussione si sposta sulle possibilità della tecnologia – intelligenza artificiale e intelligenza collettiva – come piattaforma in cui mettere in connessione antiche tecnologie con la spiritualità e il sapere delle popolazioni indigene, i movimenti femministi, includendo fenomeni più recenti come gli «sciami umani» e la programmazione informatica per creare l’ecosistema. La nostra ecologia: verso una vita planetaria (come suggerisce il titolo della mostra) è anche un’affermazione poetica che invita lo spettatore a vivere l’esperienza dell’incontro ravvicinato di un’arte che «parla», come Orchard (2022), la scultura in ceramica di Saijo Akane, esempio di coesistenza nell’ascolto del suono vivo della scultura stessa.
Olafur Eliasson, una personale
Connessioni e interconnessioni sono tra gli elementi chiave della personale Olafur Eliasson: A harmonious cycle of interconnected nows, curata da Kataoka Mami e Tokuyama Hirokazu del Mori Art Museum (fino al 31 marzo) – in collaborazione con l’Ambasciata d’Islanda e di Danimarca – mostra inaugurale dell’Azabudai Hills Gallery nel nuovo complesso urbanistico-architettonico Azabudai Hills realizzato da Heatherwick Studio nel distretto di Toranomon-Azabudai a Tokyo. Concepito come «villaggio urbano moderno», il complesso tutto vetrate, linee sinuose, giochi d’acqua e giardini è uno degli spazi verdi ecosostenibili più interessanti della capitale del Sol Levante.
In sintonia con l’ambiente architettonico che la ospita, la mostra del noto artista danese presenta una selezione di lavori che «fanno appello ai sensi e sono supportati dalla ricerca sui fenomeni naturali, sulla geometria, sulla fisica, sul movimento e sui pattern».
Anche la cucina entra nella visione di Eliasson e del suo studio SOE Kitchen di Berlino che per l’occasione ha studiato un apposito menu per l’Azabudai Hills Gallery Cafe, nella consapevolezza che mangiare è una pratica sociale di condivisione, sempre nell’ottica del rispetto per l’ambiente.
Attento alla sostenibilità e alla riduzione dell’impatto ambientale, il menu elaborato per il Giappone si basa sull’impiego di «koji» (Aspergillus oryzae), un fungo filamentoso locale usato anche per la preparazione di bevande alcoliche. Colore, luce, gesto e movimento sono altre chiavi d’accesso all’universo poetico di Olafur Eliasson (Copenaghen 1967, vive e lavora tra Berlino e Copenaghen), cresciuto tra la Danimarca e l’Islanda e sempre attento a tematiche legate all’ambiente, alla natura e alle problematiche relative.
«Su larga scala, tutto è in movimento, anche le cose apparentemente stabili: il nostro pianeta, il sole e il sistema solare corrono tutti attraverso la Via Lattea, sfrecciando intorno ad un buco nero centrale» – afferma l’artista – «Allo stesso tempo, se ci si avvicina abbastanza, il mondo è fatto di building blocks (mattoni), l’impalcatura elementare del reale ancora da scoprire. Attualmente vi accediamo solo al livello dei nostri sogni. L’arte, fondamentalmente, consiste nell’usare il potere dell’immaginazione per rendere possibile l’impossibile, visibile l’invisibile».
Tra le opere esposte Double spiral (2001), The Endless study (2005), l’installazione di acqua e luce Your split second house (2010), The trace of my echo (2017) è presente anche un nucleo del 2023 che include la serie di disegni Sun Drawing e Wind writings, Firefly biosphere (falling magma star) e l’opera The air we breathe realizzata con materiali riciclati (zinco, ventilatori e acciaio inossidabile), insieme all’imponente installazione composta da quattro sculture A harmonious cycle of interconnected nows che dà il titolo alla mostra. Poliedri che evocano la traiettoria di un singolo punto che si contorce mentre si muove: forze magnetiche naturali e meccaniche per costruire e decostruire nuovi spazi fisici e mentali.
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