Mentre a Bruxelles i 60 rappresentanti dell’Unione europea e della Celac inneggiavano alla transizione ecologica a cui aprirebbe la strada la cooperazione biregionale in materia di approvvigionamento del litio e di altre materie prime essenziali, la popolazione della provincia argentina di Jujuy avrebbe avuto molto da dire sui costi concreti di quella presunta transizione verde.

Più di un mese è passato dall’inizio della rivolta dei popoli indigeni e delle organizzazioni sociali, nell’ultima provincia della frontiera nord dell’Argentina, contro la riforma lampo della Costituzione locale voluta dal governatore Gerardo Morales e approvata in meno di un mese – con i voti anche del peronismo – il 16 giugno scorso.

Una riforma che, oltre a criminalizzare il diritto alla protesta, imponendo il divieto di blocchi stradali e di ogni «alterazione alla libera circolazione delle persone», ignora la voce dei popoli indigeni contro l’estrazione del litio da parte delle multinazionali nel bacino delle Grandi saline e della laguna di Guayatayoc, malgrado la Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro preveda chiaramente l’obbligo della «consultazione previa, libera e informata» riguardo a qualsiasi attività che li riguardi.

E A PARTIRE DALL’APPROVAZIONE della riforma la repressione, scatenata con inaudita violenza già dal giorno successivo, non ha fatto che aumentare – senza peraltro riuscire a fermare le proteste – combinandosi con una persecuzione giudiziaria che non sta risparmiando nessuno: manifestanti, rappresentanti del popoli indigeni, sindacalisti, docenti, avvocati.

«Tutto questo è per il litio», denunciano le comunità indigene in resistenza contro il modello estrattivista perseguito dal governatore Morales, in piena corsa per le primarie della destra in coppia con il capo di governo di Buenos Aires Horacio Rodríguez Larreta, che lo ha voluto come suo vice.

Ma se, per le comunità, l’acqua vale più di qualsiasi minerale, è un fatto che nel cosiddetto triangolo del litio (tra Cile, Bolivia e Argentina), dove sono concentrate quasi il 65% delle riserve mondiali, l’estrazione del nuovo “oro bianco”, componente essenziale delle batterie dei veicoli elettrici, avviene tramite l’evaporazione della salamoia: un processo ad altissimo consumo idrico che rischia di prosciugare corsi fluviali e zone umide.

Ma il litio è una tentazione a cui è troppo difficile resistere, se è vero che, di fronte alla crescita della domanda di tecnologie necessarie per la mitigazione climatica, si prevede che la produzione globale di minerali come grafite, litio e cobalto aumenti fino al 500% entro il 2050. Al punto che i governi di Cile, Bolivia e Argentina, con l’aggiunta del Brasile (settimo nella classifica mondiale dei produttori) hanno addirittura evocato la possibilità di dare vita a una sorta di “cartello” tra produttori, «una specie di Opec del litio», secondo le parole recentemente pronunciate del presidente boliviano Luis Arce.

INTANTO, PERÒ, SUL LITIO si fiondano Stati uniti e Cina. Nuova puntata della disputa in corso tra le due potenze sul suolo latinoamericano in cui però cerca ora di inserirsi anche l’Unione europea, come chiaramente emerso al vertice Ue-Celac.

La Cina ha puntato sulla Bolivia, il paese che, con 21 milioni di tonnellate, detiene la quota maggiore al mondo, contro i 18,3 dell’Argentina e i 9,6 del Cile: è qui che, nel gennaio scorso, il presidente Luis Arce ha preso parte alla firma di un accordo tra la società cinese Catl, specializzata nella produzione di batterie agli ioni di litio per autoveicoli elettrici, e la Yacimientos de Litio Bolivianos (YLB) per lo sviluppo di due complessi industriali di estrazione diretta del litio nelle saline di Uyuni e Coipasa.

QUANTO AGLI STATI UNITI, il capo del Comando Sud Laura Richardson, che già era stata molto chiara nell’individuare il litio latinoamericano come una delle priorità strategiche per gli interessi statunitensi, si è recata in Cile due volte in meno di un anno, l’ultima delle quali tra il 18 e il 21 aprile, proprio mentre Boric annunciava la sua strategia nazionale del litio, nel cui quadro l’estrazione del minerale sarà possibile solo tramite forme di partenariato pubblico-privato sotto il diretto controllo dello stato cileno. E proprio nel momento in cui Juan Gabriel Valdés, l’ambasciatore cileno negli Usa, esprimeva l’auspicio di investimenti dei paesi occidentali «con i quali condividiamo valori», provocando così l’irritazione cinese.