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Renzi contro Cambridge: «Su Regeni non hanno detto tutto»

Renzi contro Cambridge: «Su Regeni non hanno detto tutto»

Il processo L'ex premier: «In questa vicenda l'Italia è voluta andare fino in fondo e non ha fatto come gli inglesi che, a mio avviso, non hanno detto tutta la verità». Ascoltato anche Minniti

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 20 settembre 2024

Matteo Renzi lo dice sin dall’inizio, e ieri lo ha ripetuto davanti al procuratore di Roma Francesco Lo Voi: sul caso dell’omicidio di Giulio Regeni, avvenuto in un momento imprecisato tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio del 2016, l’università di Cambridge non ha collaborato quanto avrebbe potuto e dovuto.

Così l’ex premier al processo che vede imputati (ma assenti) quattro ufficiali dei servizi segreti interni egiziani: il generale Tariq Sabir, i colonnelli Athar Kamel e Usham Helmi e il maggiore Magdi Sharif per sequestro di persona pluriaggravato, concorso in lesioni personali gravissime e omicidio: «In questa vicenda l’Italia è voluta andare fino in fondo e non ha fatto come gli inglesi che, a mio avviso, non hanno detto tutta la verità e mi riferisco all’università inglese che avrebbe dovuto collaborare di più. Io chiesi all’allora primo ministro Teresa May massima collaborazione». La questione trae le sue origini dal viaggio nel regno unito del sostituto Sergio Colaciocco. In quell’occasione, la tutor del ricercatore italiano, Maha Abdrerrahman, si rifiutò di rispondere a una serie di domande sull’oggetto della ricerca che lei stessa gli aveva commissionato. E, poco più di un mese dopo, da presidente del consiglio, Renzi commentò duramente: «Non capisco per quale motivo i professori di una così prestigiosa università globale pensino che l’Italia possa accettare il loro silenzio, che mi sembra inspiegabile». Il movente individuato dalla procura, comunque, non risiederebbe nel lavoro che il giovane stava facendo in Egitto, ma nel sospetto (infondato) che lui stesse cercando di finanziare i sindacati e i movimenti sociali attivi nel paese.

Per il resto, la testimonianza di ieri in tribunale non ha offerto grandi spunti. Se non la rivelazione di un colloquio telefonico intercorso con il presidente egiziano al Sisi pochi giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Regeni. «Gli dissi che saremmo andati fino in fondo e che era una vicenda inaccettabile – ha detto Renzi -. Chiedemmo la totale collaborazione ma non sono mai entrato nel merito delle indagini. Lui mi disse che da padre capiva il dolore dei genitori e della famiglia». Poi c’è la ricostruzione delle giornate intorno all’omicidio. Renzi sostiene di essere stato informato della sparizione del ricercatore il 31 gennaio dalla Farnesina, che però aveva appreso la notizia il 26 gennaio.

«Se il ministero degli esteri ha ritenuto di tenere bassa una vicenda così complessa vuol dire che ha fatto le sue valutazioni – ha spiegato il senatore -. Se ci fosse stata allerta rossa nulla avrebbe impedito all’ambasciatore di chiamarmi, aveva il mio numero di cellulare, ma il comportamento della Farnesina è stato legittimo. In questa tragica storia l’Italia non poteva fare di più». C’era in realtà una comunicazione fatta dall’ambasciata italiana il 28 gennaio in cui si chiedeva la massima attenzione, ma è rimasta lettera morta.

Ancora nella giornata di ieri è stato ascoltato anche Marco Minniti, allora sottosegretario con delega ai servizi e anche lui avvertito del caso il 31 gennaio. «Parto con il convincimento che erano stati gli apparati egiziani», ha detto, raccontando poi un fatto che gli è accaduto quando l’8 marzo è andato al Cairo: «Mi hanno tenuto un’ora e mezza per i controlli. Qualcuno voleva farmi capire che non ero il benvenuto, poi è venuto il capo del cerimoniale a prendermi». E ancora, sui depistaggi: «Ebbi la sensazione che la banda di finti rapinatori fatti ritrovare uccisi fu un modo per darci una finta verità, un metodo già usato con altri stranieri uccisi in Egitto che aveva funzionato». Alla fine dell’udienza l’avvocata della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini, ha concluso che «è stata la paranoia di questo regime a decidere le sorti di Giulio, che era un ricercatore brillante, faceva un lavoro legittimo di ricerca e non ha mai lavorato per i servizi».

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