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Remoto e simultaneo, la realtà virtuale oltre la pandemia

Remoto e simultaneo, la realtà virtuale oltre la pandemiaDa «Substitutions» di Jonathan Hagard

Venezia VR Nuove tendenze del programma «VR Expanded», fruibile da casa armati di visore

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 12 settembre 2020

Se a causa della pandemia di COVID gli spettatori della 77° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia non sono potuti accorrere in massa al Lido, la sezione dedicata alla realtà virtuale VR Expanded è potuta migrare nelle loro case, attraverso il mondo digitale delle piattaforme. Del resto, mentre la sala cinematografica resta insostituibile, nonostante l’era degli schermi abbia ormai persuaso il nostro mondo, la realtà virtuale, previo acquisto o prestito di un visore, può assecondare l’eccezionalità storica in virtù del suo stesso valore intrinseco: l’isolamento necessario dall’ambiente fisico. E così, la Mostra ha forse anticipato una delle possibili trasformazioni in seno agli eventi culturali e non solo: l’avvio di quel sistema ibrido che unisce remoto e simultaneo, che mescola dimensione fisica e virtuale. Una nuova dimensione del sociale si presenta dunque all’orizzonte, rendendo già operative alcune delle potenzialità del medium immersivo. Una scommessa ambiziosa e non ancora definita completamente che ha permesso non solo al pubblico di fruire dei 44 contenuti della sezione ma, con accredito ad hoc, anche di visitare il padiglione virtuale, assistendo a incontri e presentazioni. Un’accelerazione imposta dalla contingenza storica che ci fa intuire, che ci piaccia o no, il potenziale della dimensione sociale del digitale.

I curatori Michel Reilhac e Liz Rosenthal hanno insistito molto su questo aspetto, la cui efficacia andrà di pari passo con la necessaria sofisticazione delle tecnologie, per ora ancora lontane dall’essere delle interfacce universali e condivise. Possiamo immaginare però, come promette Apple, che nel giro di qualche anno gli ingombranti visori raggiungeranno standard di leggerezza maggiori, unendo probabilmente le funzionalità di realtà virtuale e aumentata e abbattendo i costi ancora proibitivi di questa tecnologia indossabile.

Se questo è quanto l’orizzonte di un’industria in espansione promette, il coté specifico dell’intrattenimento di cui la Mostra si fa portavoce è ancora un laboratorio di prove di regia e di linguaggi e soprattutto di ricerca del giusto contenuto per il medium.

Vengono offerte molte esperienze che valicano i confini dell’ordinario (come Recordin Entropia di François Vautier), motivo di attrazione ancora forte in questa fase primitiva del mezzo, e che insistono molto sul motivo del viaggio, inevitabilmente efficace in questa fase delicata. Il documentario, presente in forma massiccia – oltre naturalmente all’animazione – sembra un versante su cui tanto le produzioni europee quanto gli eccellenti team asiatici e i consolidati statunitensi investono in modo differenziato.

Del grande bacino di opere selezionate, vi è infatti un’indubbio interesse per le strategie ibride che molti autori costruiscono rimanendo in dialogo con lo sguardo spettatoriale in terza persona di matrice cinematografica o financo teatrale, per quanto in soggettiva nell’universo avvolgente dei 360 gradi.

Così, come fosse la matrice originaria dell’idea del viaggio come scoperta di sé e del mondo, 1st Step – From Earth to the Moon, progetto fuori concorso già promettente sulla carta, ci porta nello spazio profondo, ma soprattutto sulla superficie della luna, accordando la qualità fantasmagorica dell’immagine cinematografica con una memoria condivisa delle immagini d’archivio. I registi Jörg Courtial, Maria Courtial omaggiano il cinquantesimo anniversario della missione Apollo e contemporaneamente celebrano l’artificio di un nuovo tipo di spazio, quello virtuale a 360 gradi, come ambiente che deve essere ancora esplorato. Immergendoci tra le iconiche immagini dell’Agenzia Spaziale, questo lavoro esplora, attraverso un uso inedito del repertorio, la memoria di un mondo virtuale a venire.

Ma ancor più efficace sul piano del coinvolgimento è il taiwanese Home di Hsu Chih Yen che lavora molto bene sul senso del montaggio nella VR. Non vi sono stacchi e questo permette al soggetto dell’esperienza di lasciarsi andare al flusso che scorre intorno alla posizione che gli viene assegnata.

Forse il più interessante sul piano dell’ibridazione dei linguaggi è l’indonesiano d’animazione Penggantian (Sostituzioni). Il regista Jonathan Hagard si rivolge alla dimensione del tempo, esplorando il trascorso di una famiglia che risiede in una via immaginaria di Giacarta. Il fascino di questo lavoro risiede nell’intuizione di impiegare il tratto tradizionale del disegno come lente attraverso cui documentare le trasformazioni urbane, ambientali e culturali della capitale indonesiana lungo un arco temporale di quarant’anni. Non siamo dunque nell’orizzonte dell’animazione alla Favreau (regista e produttore dell’iperrealista film d’animazione Il re leone), che presenta fuori concorso il suo sofisticato progetto Gnomes and Goblins in cui, come potevamo aspettarci, elabora oltre all’eccellente coerenza e qualità visiva del mondo virtuale, un’ottima strategia narrativa.

Il documentario in senso più classico sembra, invece, ormai un terreno piuttosto solido per la VR, come dimostra Om Devi: Sheroes Revolution, unica produzione italiana in concorso. Il lavoro è una riflessione sulla violenza e i diritti di genere, uno sguardo che si mette al servizio dell’esperienza di tre donne indiane. È un documentario che ci mette nella posizione di assistere e di ascoltare restituendo, attraverso riprese lineari a 360 gradi, la materialità del dolore e della rabbia che queste tre donne trasformano attraverso il loro attivismo. Come se il regista Claudio Casale ci portasse lontano per formulare una riflessione sul nostro grado di civiltà, questo lavoro è espressione di come il documentario immersivo stia lentamente diventando uno strumento di racconto potente. Anche nell’ambito della Biennale College è presente un lavoro che va in questa direzione. Meet Mortaza affronta i temi dell’esilio e dell’asilo politico seguendo l’odissea di un ragazzo costretto a viaggiare da Kabul a Parigi per sfuggire alla condanna a morte sentenziata dalle autorità religiose. Un lavoro poetico che attendiamo di vedere integrato con l’installazione in realtà aumentata, su cui sta lavorando il regista Joséphine Derobe e che sarà pronta nel 2021.

Accanto a questi lavori, troviamo un parterre di opere che esplorano l’interattività: dal gaming ad altre forme meno impegnative, soprattutto nella durata, e che maggiormente si concentrano sulla relazione tra il soggetto e la dimensione narrativa. Ma maggiore è il grado di autonomia del soggetto, più sofisticata deve essere la tecnologia e il grado di alfabetizzazione che il pubblico, cresciuto nella sala, deve possedere.

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