Regina Coeli, il museo dei reietti
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Regina Coeli, il museo dei reietti

Il carcere romano di Regina Coeli – E. Ma.

Reportage dal più antico carcere italiano, dove le Ss rinchiusero antifascisti ed ebrei, e che oggi raccoglie tossicodipendenti, malati psichici e homeless di Roma. Per il Campidoglio va chiuso. «Si potrebbe pensare di alleggerire il sovraffollamento dismettendo intanto la Terza sezione e trasformandola in una sorta di percorso storico-didattico a disposizione di tutta la cittadinanza, utile anche a combattere la sensazione di isolamento dei detenuti»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 30 settembre 2023

Lo si potrebbe chiamare il carcere a chilometro zero. Dalle finestre degli uffici amministrativi che affacciano su via della Lungara, nel rione Trastevere, li si può guardare quasi in faccia, accampati proprio sotto il ponte prospiciente intitolato a Giuseppe Mazzini, sulla rive gauche del Tevere, accasciati su materassi raccogliticci, i detenuti di domani. Quelli che prima o poi saliranno i famigerati “tre scalini” di Regina Coeli. Non più «romani de Roma», certificato che si acquisiva una volta proprio dal transito nel più antico dei carceri italiani, ma soprattutto giovani e giovanissimi migranti. Africani, maghrebini, asiatici… In generale, a parte la nazionalità, tossicodipendenti, malati psichici, senza fissa dimora e reietti di ogni genere. Sono loro che affollano ogni giorno, succubi senza via d’uscita del fenomeno delle “porte girevoli”, questo alverare di celle che si estende imponente fino alle pendici del Gianicolo.

Il portone originale di una cella della Terza sezione del carcere di Regina Coeli, braccio sottoposto alla tutela dei Beni culturali Foto di E. Ma.

SU 53 DETENUTI suicidatisi dall’inizio dell’anno nei penitenziari italiani, secondo il report di Ristretti orizzonti, cinque sono coloro che – tutti giovani – si sono tolti la vita qui, dietro una di quelle antiche finestre dove sono stati rinchiusi dal regime fascista anche molti dei padri della nostra Repubblica. Tasso di affollamento del 150% («più di mille detenuti su 670 posti, ma – assicura la direzione del carcere – viene rispettata la disponibilità di uno spazio minimo di tre metri quadrati per ogni detenuto imposto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo»); spazi comuni praticamente inesistenti; turn over altissimo e, di conseguenza, impossibilità di pianificare un qualunque progetto di reinserimento (o inserimento, sarebbe meglio dire) sociale.

Sono questi, insieme alla «vetustà» della struttura in parte tutelata dai Beni culturali e all’impossibilità di modificarne l’impianto, alcuni dei motivi che hanno spinto il gruppo consiliare del Pd a proporre l’ennesima mozione (una richiesta che si ripete di tanto in tanto da sempre: addirittura la prima volta, secondo alcune fonti storiche, fu nel congresso penale e penitenziario di Berlino del 1935) per la chiusura della Casa circondariale romana. Proposta questa volta votata però all’unanimità dall’Assemblea capitolina.

DA SEMPRE uno dei più ambiti edifici di Roma da parte delle mafie speculative di ogni risma, sull’antico carcere nato nel 1861 dall’annessione di due antichi conventi costruiti a metà del Seicento si sono immaginati i progetti più disparati (e milionari). Tutti irrealizzabili, però. «Non solo perché – spiega la direttrice Claudia Clementi, arrivata nel marzo 2022 da Bologna, dove per anni ha diretto il carcere più grande dell’Emilia Romagna – questo significherebbe trasferire più di mille detenuti non si sa dove, ma anche perché chiudere Regina Coeli significherebbe dover ridislocare buona parte degli uffici giudiziari di Roma, compresi il vicino Tribunale di sorveglianza, gli uffici del Garante nazionale dei detenuti e gli studi degli avvocati, perlopiù ubicati nel rione Prati, a due passi da qui».

Stampa ottocentesca del carcere di Regina Coeli

Di fatto però, ammette anche Clementi, «probabilmente l’istituto così com’è è ingestibile». Ma il problema sta a monte: «Per molti dei ragazzi che arrivano qui ogni giorno, la commissione del reato è l’ultimo dei loro problemi». Doppia diagnosi e poli dipendenza segnano le vite della maggior parte dei detenuti. E non bastano le due unità dell’Asl di stanza nel carcere giudiziario romano – un lusso rispetto a molte altre strutture penitenziarie -, una di medicina di base e l’altra specializzata proprio sulle dipendenze e sulla salute mentale. Roma è una città dove l’aumento dell’uso di cocaina a basso costo lo si misura nel traffico, prima ancora che nelle fogne. E il carcere, come ovunque, è il suo specchio nascosto.

REGINA COELI però è anche altro. Qui sono passati Antonio Gramsci, Sandro Pertini e Giuseppe Saragat, Gaetano Salvemini, Alcide De Gasperi, Cesare Pavese e Luchino Visconti, Ernesto Rossi e molti altri prigionieri politici ed ebrei. Molte delle persone trucidate nelle Fosse Ardeatine o torturate in via Tasso vennero prelevate da queste celle. «Su questo carcere stanno studiando anche i ricercatori dell’università di Tor Vergata per un progetto finanziato dalla Germania al fine di rintracciare il luogo dove fu ubicato il primo gabinetto di polizia scientifica d’Europa (nel 1902, ndr), probabilmente in qualche scantinato oggi usato come magazzino», racconta la dottoressa Clementi che accompagna il manifesto in una visita con molti paletti imposti ai giornalisti dal ministero di Giustizia negli ultimi cinque anni, grazie alle restrizioni volute dal ministro pentastellato Alfonso Bonafede.

LA TERZA SEZIONE, che si dipana dalla prima delle due rotonde dell’antica struttura panottica, è originale, mai stata ristrutturata ed è sottoposta alla tutela dei Beni culturali per mantenere il più possibile la testimonianza di quello che fu la prigione dei nazisti, gestita direttamente dalle SS durante l’occupazione nazifascista di Roma. «La numerazione delle celle è stata cambiata nel corso dei decenni, perciò non sappiamo esattamente in quali celle vennero rinchiusi i detenuti politici come Pertini e Saragat, malgrado dalla descrizione della visuale esterna alle finestre presenti nei loro scritti si potrebbe intuire la collocazione». Ogni anno, racconta ancora la direttrice Clementi, la comunità ebraica e le associazioni dei parenti delle vittime ricordano con una piccola cerimonia i loro congiunti antifascisti rinchiusi in queste celle.

UNA LUNGA E RICCA STORIA penitenziaria, quella di Regina Coeli, che affianca quella propria dell’edificio e per certi versi addirittura la surclassa. Ed è da qui che bisognerebbe ripartire. «Si potrebbe pensare di alleggerire Regina Coeli dismettendo intanto la Terza sezione e trasformandola in una sorta di museo storico-didattico, con un percorso formativo a disposizione di tutta la cittadinanza, un modo per stabilire anche un contatto ulteriore e diverso tra il carcere e il resto della città, utile a tutti, soprattutto a combattere la sensazione di isolamento dei detenuti», concordano la direttrice e il comandante capo fresco di nomina, Francesco Salemi. Perché, come dice Clementi, «la visita allo “zoo” (unica forma fin qui ammessa di contatto tra i reclusi e i rappresentanti delle istituzioni, ndr) non serve a nessuno».

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