Re(fuse), ribaltare il linguaggio
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Re(fuse), ribaltare il linguaggio

Femminismi Un percorso di avvicinamento narrativo al 25 novembre
Pubblicato circa un mese faEdizione del 12 ottobre 2024

La pugile olimpica Imane Khelif, l’affaire Boccia/Sangiuliano, il Papa dell’inquisizione, la politica omofobica e del controllo, i corpi negati, ammazzati dalle guerre interne o esterne degli uomini che poi si spartiscono le spoglie. Le nostre società rimangono dominate da una sola idea di uomo e non accettano di camminare insieme. Relazione, rispetto, pace, in una parola contaminazione, sono ormai termini sovversivi mentre sapienti operazioni di pinkwashing tentano di barattare il Potere con la Sorellanza.

Questo mondo espelle tutte le soggettività seconde dalla narrazione ufficiale, inutile girarci intorno, e quello tra i femminismi e i media è un rapporto troppo spesso difficile: se sessuati sono anche i soldi che alimentano la comunicazione, i confini rimangono blindati.

L’urgenza – se si può ancora definire tale dopo altri 93 femminicidi nel 2024 – di contribuire a un percorso di «avvicinamento narrativo» alla giornata internazionale del 25 Novembre, è stata oggetto di confronto ieri a Roma da Zalib – (re)FUSE l’informazione verso il 25 Novembre —, organizzato dalla collettiva FactoryA con GiULia e Manifestolibri grazie al progetto Aidos-Poster. Al fianco di molti altri appuntamenti che ormai germogliano idee buone, è stato ribadito che i media costruiscono e blindano le leadership diffondendo «modelli di ruolo» capaci di influenzare la nostra visione del mondo. L’Urgenza è continuare insieme a ribaltare questo linguaggio del rancore in maniera orizzontale e deliberativa (transfemminista).

Partendo da un elemento: le forme di violenza di genere sono molte e articolatissime; e agire in piena libertà non è semplice. Nell’informazione le voci chiamate ad analizzare i fatti sono al 77% parole di uomo; le/i destinatari di diritti faticano a diventare soggetto dell’informazione e, se chiamati a commentare lo sono giusto «in virtù della loro differenza». Quando l’unica «ideologia gender» che eventualmente esiste è quella patriarcale unita all’«ossessione maschile per il corpo femminile». Mentre è «la riproduzione (sociale) della vita economica», cioè il lavoro (non retribuito) delle donne, a consentire l’autonomia degli uomini.

Significa che per potersi autodeterminare senza l’aggravante del ricatto affettivo, trovando anche lo spazio e il tempo di prendere parola pubblica, «l’altra metà del mondo» avrebbe bisogno della quasi totalità delle risorse (case, lavoro, welfare, etc), cioè di un completo investimento nella vita, intesa come pluralità dei desideri, priorità dei bisogni, sacralità delle scelte e dei diritti per tutt*. E non trovarsi, invece, a ricostruire storie dalla devastazione e dalla paura che ogni violenza o assenza lascia dietro di sé. Corpi secondi, poveri ma anche corpi liberati possono costituire, però, arcipelaghi di autonomie in relazione; certo la cooperazione dovrebbe farsi più radicale. Sta nella consapevolezza di guardare al mondo con uno sguardo nostro la determinazione a tirare dritt* per le strade che ci interessano. C’è ancora tanta controinformazione da fare.

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