Un uomo, medico chirurgo, decide di arruolarsi dopo il decesso di uno dei tanti soldati colpiti in battaglia.. Al fronte finisce dalla parte sbagliata del sentiero, nelle mani del nemici che lo fanno prigioniero. Picchiato, torturato, viene poi costretto a dichiarare il decesso nei terribili interrogatori di altri militari del suo esercito catturati, testimone silenzioso e nuovamente impotente – proprio come in sala operatoria – davanti alla morte. Siamo in Ucraina, la guerra è quella del Donbass, i nemici i militari russi della repubblica indipendente autoproclamata – molto efferati.

Ma Reflection – in concorso – del regista ucraino Valentyn Vasyanovych non è propriamente un film «su» quel conflitto nascosto (e remoto) ancora in corso, di cui porta i segni nel quotidiano della capitale ucraina attraverso il trauma del protagonista una volta tornato a casa grazie a uno scambio di prigionieri. La «riflessione» che suggerisce il titolo investe piuttosto il significato dell’esistenza, a partire dalla violenza e dalla morte il regista (nato nel 1971) e sembra alludere all’essenza dell’umanità: l’anima, il corpo, la vita dopo la morte. Da qui intraprende un movimento di costruzione metaforica che procede per inquadrature frontali e suggestioni cristologiche (la deposizione di un prigioniero ucciso che compie il personaggio come quella di Cristo), intrecciate al conflitto col senso di colpa che l’uomo porta in sé per essere stato, appunto, sguardo muto su tante efferatezze.

MA COSA è la vita, e come affrontare la morte? Nella ricerca tra dubbi e silenzi, e nel dialogo con la giovane figlia l’uomo cerca un segno, una possibile risposta ai suoi interrogativi, come quell’aura di un piccione morto schiantandosi contro la loro finestra la cui impronta del corpo persiste sul vetro. La stessa ambizione del regista che soccombe però a sé stessa priva di un’idea di messinscena, e di una visione cinematografica, capaci di sostenerla.