I Cinque Stelle intendono restare al governo se Draghi, tra l’altro, confermerà ciò che ha già fatto: il peggioramento delle condizioni imposte ai beneficiari del «reddito di cittadinanza» ritenuti «abili al lavoro» (1 milione circa su 3,2) deciso nell’ultima legge di bilancio. È confermata la legge della crisi: tanto più si deteriora la situazione economica, salariale e sociale, tanto più i lavoratori «poveri assoluti» saranno costretti ad accettare offerte di lavoro che non ci sono.

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È un paradosso, ma questo è il problema: in Italia manca una domanda di lavoro adeguata alle caratteristiche di potenziali lavoratori molto fragili, con basse qualifiche, che non possono aspirare a redditi alti. Invece di estendere un reddito di base incondizionato ai lavoratori poveri, magari accompagnato da un salario minimo che difficilmente vedrà la luce, si è fatto l’opposto. In caso di rifiuto di una seconda offerta di lavoro a 250 chilometri dalla città di residenza, o addirittura su tutto il territorio nazionale, perderanno il sussidio. Ma quale imprenditore di Milano o Bologna cercherebbe chi prende il reddito e abita in provincia di Siracusa? Nessuno. Tanto più se consideriamo la caratteristica strutturale del reclutamento di manodopera in questo paese. L’azienda che ne ha bisogno non si rivolge al sistema di collocamento che avrebbe il compito di vagliare la cosiddetta «congruità» dell’offerta di lavoro. La cerca senza intermediazioni.

Nel dicembre 2021 il governo Draghi, e dunque gli stessi Cinque Stelle, hanno deciso di scaricare la responsabilità di questa situazione sulle spalle di chi cerca un lavoro, ma non lo trova. Si spiega così anche il taglio di 5 euro al sussidio di tutta la famiglia, non inferiore ai 300 euro, dopo il diniego dell’«offerta». I Cinque Stelle hanno detto ieri di «non essere disponibili a considerare ulteriori restrizioni ancora più penalizzanti, preordinate a restringere la portata applicativa di questa riforma». Ma è quello che hanno già fatto. E non è escluso che queste condizioni peggiorino quando sarà chiaro che i circa 5 miliardi di euro, stanziati dal «Piano di ripresa e resilienza» (Pnrr) per la «Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori» (Gol) non produrranno i risultati attesi. I centri dell’impiego sono bloccati dal conflitto costituzionale tra regioni e Stato. Sono loro uno degli obiettivi della furiosa battaglia classista contro il «reddito di cittadinanza», insieme all’odio contro i poveri che percepiscono un reddito che, nei fatti, è «di base». Ma non per volontà dei 5S che anzi vogliono «implementare» «una piattaforma nazionale di domanda e offerta di lavoro». Il «reddito di cittadinanza» non è uno degli strumenti per liberarsi dalla povertà, ma per governare i poveri. È il cavallo di Troia del Workfare.

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Nella maionese impazzita del «Decreto aiuti» si è parlato anche dell’emendamento votato da Lega, Fratelli d’Italia, Noi con l’Italia, Forza Italia, Pd e dimaiani che riconosce la delazione dei datori di lavoro privati nel caso di rifiuto di un’offerta di lavoro. Non è chiaro se la norma sia praticabile, sarà ritirata, e se i 5S si asterranno. Proprio un anno fa furono loro a presentare un altro emendamento al «Decreto sostegni bis» che avrebbe obbligato i percettori ad accettare offerte di lavoro stagionali entro 100 chilometri dalla residenza pena la decadenza del beneficio.L’emendamento non passò, ma oggi resta l’ossessione della politica italiana di garantire manodopera servile all’industria del turismo.

Il problema è completamente falso. La carenza di manodopera è dovuta agli stop and go delle attività turistiche causa Covid, ai ritardi nell’erogazione delle casse integrazioni, alla ricerca di posti più stabili come commessi, cassieri o personale Ata della scuola. Il «reddito di cittadinanza» c’entra poco, o nulla. C’entra, invece, la volontà politica di abbattere la resistenza diffusa, ma tacita, contro i ricatti del lavoro precario. Questo è intollerabile per i paternalisti neoliberali e per i populisti compassionevoli.