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Recessione per frenare l’inflazione? Anche no

Nuova Finanza Pubblica

Nuova Finanza pubblica La rubrica settimanale di economia politica. A cura di autori vari

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 12 novembre 2022

L’inflazione non scende in maniera consistente negli Usa. Dopo il picco del 9,1% ad aprile, sembra stabilizzarsi a un valore comunque superiore all’8%. In Europa, invece, la galoppata prosegue: Il tasso annuale è salito al 10,7% a ottobre rispetto al 9,9% di settembre. In Italia si passa dal 8,9% di settembre al 11,9% di ottobre. Una tendenza globale che coinvolge paesi come Brasile, Messico, India. La guerra più che un detonatore è stata un acceleratore di un fenomeno che aveva preso la rincorsa da tempo, che affonda le sue radici nella tendenza alla de-globalizzazione selettiva e nei tentativi di soluzione puramente monetaria delle crisi finanziarie degli anni Duemila.

In questi ultimi mesi neppure il raffreddamento dei prezzi delle materie prime, la decisa contrazione dei noli delle portacontainer (settore che Federico Rampini definiva “una fabbrica del carovita”), la riduzione delle strozzature in diverse filiere produttive hanno determinato un’inversione di rotta. Insomma, le ragioni strutturali che stavano a monte, al netto dei perduranti effetti del conflitto russo-ucraino, sembrano alleggerire il proprio peso specifico nel dare vita al fenomeno inflazionistico. Gli effetti dell’inversione di direzione della politica monetaria, in senso restrittivo, sono lenti e parziali anche in quei paesi come Polonia, Ungheria, Brasile e Cile dove tale cambio di passo si è affermato da più tempo.

Perché allora l’inflazione continua a correre? Di sicuro nei paesi occidentali non sta intervenendo una sorta di rincorsa dei salari. Esiste, al contrario, un’inflazione dei profitti. Il caso più macroscopico è costituito dal prezzo del gas, il quale nelle ultime settimane è sceso del 70%, ma non c’è una corrispondenza nel prezzo al consumo. Come afferma Andrea Fumagalli se il prezzo del gas segue una logica speculativa e non di mercato i prezzi finali si determineranno seguendo una logica di profitto. C’è indubbiamente un’inflazione da costi e da investimenti necessari al riposizionamento di alcune catene del valore, destabilizzate geopoliticamente da pandemia e guerra.

Esiste poi una sorta di aspettativa inflazionistica che concorre a tenere elevati i prezzi, avviando un processo persistente. L’inversione di tendenza, di conseguenza, si afferma a fatica. Il contesto che si impone è una rincorsa generalizzata dei prezzi, dove ogni attore tende a voler recuperare potere d’acquisto, e questa crescita dei prezzi a breve alimenta anche quella a lungo termine. Gli stessi tassi d’interesse salgono grazie all’attivismo delle banche centrali, ma meno velocemente di quelli inflattivi, da qui tempi lunghi per misurare l’efficacia dell’intervento monetario.

In tale contesto nessun paese si azzarda a politiche fiscali particolarmente rigorose. Tutto concorre ad alimentare o a non frenare l’impennata dei prezzi. Come quando un cavallo si spaventa e trasforma l’intera mandria in un branco imbizzarrito al cui interno si alimenta vicendevolmente un panico incontrollato. L’effetto positivo dell’inflazione è quello di ridurre l’incidenza del peso dei debiti, ma le classi popolari e i lavoratori rischiano di rimanere calpestati da decine di zoccoli.

Val la pena ricordare che l’aumento dei tassi nominali operato dalla Fed nella seconda metà dei Settanta impiegò 8 anni per ricondurre l’inflazione dal 13% al 4%. Operazione che ebbe come effetto collaterale una crescita di 6 punti percentuali della disoccupazione, in un contesto dove la pressione salariale era comunque forte.

Solo una recessione potrebbe frenare nel breve la rincorsa inflazionistica, dove il problema della realizzazione imporrebbe una frenata alla spirale prezzi-profitti. Uno scenario socialmente esplosivo in cui la disoccupazione si assocerebbe a salari e pensioni indeboliti nel potere d’acquisto. Forse il problema principale non è contenere l’inflazione a tutti i costi, ma evitare che diventi un ulteriore strumento di polarizzazione dei redditi.

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