È finita l’era di Ada Colau. Dopo otto anni, l’emblematica sindaca perde lo scranno più alto del comune di Barcellona. «Nessuno pensava che avremmo governato per otto anni questa città. Venivamo a cambiare le priorità, ad aprire nuove strade, non a scaldare la sedia. E l’abbiamo trasformata, ora è più verde, più femminista e più… diversa», ha rivendicato domenica notte davanti ai suoi. «Non ci arrendiamo».

Ma i risultati sono stati ben lontani dalle aspettative di Barcelona en comú. Ad arrivare primo nelle urne è stato l’ex sindaco Xavier Trias, appoggiato dal suo partito nazionalista di destra Junts: con il 22% dei voti si è guadagnato 11 consiglieri (su 41), uno in più di quelli che aveva Colau nel 2019. Al secondo posto, per un soffio (141 voti su 132mila) si è piazzato il socialista Jaume Collboni, ex vicesindaco della stessa Colau che, grazie alla legge elettorale, ha ottenuto 10 consiglieri (ne avevano 8).

A Barcelona en comú ne sono toccati solo 9. Seguono Esquerra Republicana (sinistra repubblicana), con 5: ne aveva 10 (e nel 2019 aveva vinto le elezioni per poche migliaia di voti su Barcelona en comú, che però poi era riuscita a raccogliere una maggioranza di consensi in consiglio comunale). Il Pp raddoppia, passa da 2 a 4 ed entra per la prima volta Vox, con due consiglieri, superando di poco la soglia del 5%. Rimane fuori la Cup, il movimento assemblearista indipendentista di sinistra, che ottiene solo il 3,8% e 50mila voti.

IL PARTITO CHE HA ottenuto più voti di tutti però è quello dell’astensione: ben 4 barcellonesi su 10 non hanno partecipato al voto. Senza nessuna sorpresa, perché succede sempre, i quartieri dove si vota di più sono quelli più ricchi; quelli più poveri, che Colau e il suo governo hanno appoggiato di più per riequilibrare le enormi sperequazioni sociali che esistono in città, sono rimasti a casa.

Se non succede nulla, Trias tornerà a guidare il comune dopo otto anni: la legge pensata in epoca bipartitista garantisce che il primo arrivato è automaticamente sindaco, se non c’è una maggioranza alternativa. E ha già chiarito che cercherà di smontare tutto quello che ha fatto Barcelona en comú: fine delle isole pedonali, delle corsie delle biciclette, delle limitazioni per le auto, dei progetti per introdurre verde e rifugi climatici, dell’edilizia pubblica e del dentista comunale. Fine della task force comunale che ha bloccato il 90% degli sfratti e apertura di nuovo al turismo sregolato e ai poteri forti.

Ma la chiave potrebbe essere che, in realtà, a Barcellona 24 dei 41 seggi sono andati a partiti di sinistra (i tre che hanno governato in coalizione, con Esquerra fuori dal governo però spesso in maggioranza). Il socialista Collboni ci crede e per questo ha abbandonato Colau poco prima della campagna elettorale. Ha flirtato tutta la campagna elettorale con Trias, ma l’unica possibilità di diventare sindaco è che gli altri due partiti di sinistra lo appoggino. Un’alleanza con Trias non gli servirebbe per questo obiettivo.

BARCELONA EN COMÚ ha aperto la porta a questa opzione, perché spera di salvare buona parte della propria eredità politica in città con l’ex alleato, ma Esquerra ha una posizione problematica. Indebolita in tutta la Catalogna, e con la spada di Damocle delle elezioni alle porte, non può permettersi di cedere a Junts l’etichetta di indipendentisti doc (anche se Trias, saggiamente, non ha toccato questo tasto in campagna elettorale). I due partiti catalani su opposti fronti, Junts e Erc, hanno rotto i ponti mesi fa, quanto Junts ha abbandonato il governo catalano, ora guidato, in minoranza, da un monocolore di Erc.

L’appoggio dei socialisti alla Generalitat, l’amministrazione del governo catalano, sarebbe acqua di maggio per la sinistra repubblicana, così come l’ok di Erc sarebbe una benedizione per le ambizioni sfrenate di Collboni. Ma le elezioni anticipate complicando il quadro.

CI SONO DUE SETTIMANE di tempo. E devono ancora essere scrutinati i voti arrivati dall’estero: sono una manciata, ed è improbabile che cambino gli equilibri: ma se Colau inaspettatamente ottenesse quei 150 voti più di Collboni la situazione sarebbe completamente diversa.