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Raymond Roussel, un caleidoscopio (gelido) di trovate

Raymond Roussel, un caleidoscopio (gelido) di trovateHenri-Achille Zo, due delle illustrazioni per «Impressions d’Afrique», di Raymond Roussel, 1932

Avanguardia francese Arriva in italiano «La Doublure» (1897), lo sconcertante romanzo combinatorio di Raymond Roussel. Tre quarti di esso, come un gigantesco ingrandimento, sono dedicati al Carnevale di Nizza... La tecnica compositiva di «Il doppio. Come ho scritto alcuni miei libri» (Castelvecchi) sembra anticipare le sperimentazioni dell’OuLiPo e del Nouveau roman

Pubblicato circa un anno faEdizione del 10 settembre 2023

«Si sente, da qualche cosa di particolare, che si è fatto un capolavoro, che si è un prodigio; vi sono dei bambini prodigio che si sono rivelati a otto anni, io mi sono rivelato a diciannove anni. Ero eguale a Dante e a Shakespeare, sentivo quello che Victor Hugo vecchio sentì a settant’anni, quello che Napoleone sentì nel 1811, quello che Tannhäuser sognò su Venusberg; sentivo la gloria…». Queste esaltate considerazioni di Raymond Roussel (1877-1933) riguardano il senso di appagamento provato durante e dopo la stesura del romanzo in versi La Doublure, pubblicato nel 1897 da Alphonse Lemerre, l’editore dei parnassiani che stamperà in seguito tutti i suoi titoli. Si tratta di un atipico poema composto di 5.586 alessandrini che antepone il seguente avviso: «Questo libro è un romanzo, bisogna iniziarlo dalla prima pagina e finirlo con l’ultima» (altrove consigliava i lettori, non abituati ai suoi funambolismi sintattici, di cominciare Impressions d’Afrique da pag. 212).

Il testo viene ora ben tradotto per la prima volta in italiano da Marco Bruni in Il doppio Come ho scritto alcuni miei libri (Castelvecchi, pp. 252, € 20,00), arricchito da una pregnante prefazione di Massimo Donà.

Priva del testo originale a fronte, l’opera presenta anche il fondamentale saggio, uscito postumo, sempre da Lemerre, nel 1935, in cui l’autore svela le proprie tecniche compositive (la prima traduzione allestita, di Paola Dècina Lombardi, figurava in calce a Locus Solus, il volume da lei curato per Einaudi, collana «Letteratura», nel 1975).

L’insuccesso del libro d’esordio procurò a Roussel una crisi depressiva che si protrasse negli anni, come testimonia lo psichiatra Pierre Janet che ebbe in cura lo scrittore e che alterò, in De l’Angoisse à l’Extase (1926), la sua identità in quella di Martial Canterel, il protagonista di Locus Solus: «Martial, giovanotto nevropatico, timido, pieno di scrupoli, facilmente soggetto a depressioni, quando aveva diciannove anni, per cinque o sei mesi, presentò uno stato mentale che egli stesso giudica straordinario». La stesura della Doublure rappresenta tale catarsi creativa, così concepita dal medesimo autore: «Se avessi lasciato libere le mie carte, ne sarebbero usciti raggi di luce che sarebbero giunti fino in Cina».

La trama del romanzo, come in tutte le narrazioni di Roussel, non è facilmente ricostruibile, basandosi su avvenimenti frammentari, avulsi da ogni logica consequenziale, spesso di natura combinatoria, che rientrano nella sua maniera di sviluppare un assemblaggio compositivo che sembra anticipare, nonostante il conclamato misoneismo dello scrittore, le sperimentazioni dell’OuLiPo e del nouveau roman.

Nella Doublure viene descritto il rapporto tra Gaspard Lenoir, un attore sostituto che sembra adombrare la figura dello stesso scrittore, e Roberte de Blou, invaghitasi di un personaggio teatrale rappresentato dall’amico. John Ashbery precisa che «i loro incontri sono narrati come se François Coppée li avesse scritti sotto l’influenza di Alain Robbe-Grillet». Il motivo del doppio è richiamato in varie parti del libro, e il cognome di Roberte è l’anagramma di Double. D’altronde il termine «doublure» ha valenza polisemica, significando, come precisa il curatore nella postfazione, «sia “attore sostituto”, come lo è Gaspard Lenoir, il protagonista del romanzo, sia “fodera” (…). Letteralmente doublure, participio futuro di double, vuol dire doppiatura». Indicativa al riguardo la lettura che ne dà Foucault che utilizza il vocabolo dedoublement, «sdoppiamento», idealmente contrapposto a plis, «piega», che Deleuze adopera a proposito dello stesso Foucault.

La vicenda risulta sbilanciata verso la descrizione minuziosa del carnevale di Nizza, cui partecipano Gaspard e Roberte, che occupa tre quarti del libro, ovverossia 211 pagine sulle 318 di cui si compone l’edizione originale, confermando la tendenza agli «ingrandimenti giganteschi di minuscoli dettagli» già rilevata da Robbe-Grillet. In quest’ambito l’autore, mantenendo l’esatta topografia relativa ai festeggiamenti tenutisi nel 1890, rovescia l’itinerario intrapreso dal corteo di carri e maschere. Alcuni studiosi hanno proposto un dettagliato inventario comparandolo con quello immaginato da Roussel e arricchendolo al contempo di ogni possibile variante combinatoria.

Roussel teorizzò, in Comment j’ai écrit certains de mes livres, definito da Michel Leiris il suo «testamento letterario», la particolare tecnica del procédé di sua invenzione che prevedeva di scegliere «due parole quasi simili (sul tipo di metagrammi). Per esempio billard (biliardo) e pillard (predone)» alle quali venivano aggiunte parole analoghe «ma prese in due sensi differenti» in modo da ottenere «due frasi quasi identiche». Tali frasi dovevano contrassegnare l’incipit e l’explicit di un determinato testo (oltre a Impressions d’Afrique e Locus Solus, si citano anche i testi teatrali L’Etoile au front e La Poussière de soleils), passando attraverso una progressione di complicati escamotages sui doppi sensi e in parte contraddicendo una sua sentenza lapidaria: «Chez moi l’imagination est tout».

Questi sconcertanti, a tratti sgangherati congegni narrativi, «questo gelido caleidoscopio di trovate», come lo ha felicemente definito Giovanni Macchia, rinviano a un’affabulazione fondata perlopiù su dinamiche che prescindono da qualsivoglia richiamo a situazioni reali o contingenti («bisogna che l’opera non abbia nulla di reale, non rispecchi il mondo reale o il mondo dello spirito, solo combinazioni esclusivamente immaginarie» asseriva il summenzionato Janet). Non è un caso che l’autore manifestasse un’incondizionata ammirazione per l’opera di Verne e Flammarion, rovesciando la fruibilità dei loro procedimenti narrativi in imperscrutabili congegni a orologeria strappati a una scrittura che sembra esautorare sé stessa, avvolgendosi a spirale come la gidouille che campeggia sul ventre di Ubu roi. Ci si accontenta della gratuità di un atto creativo teso a valorizzarne l’aspetto manuale, artigianale, in contrapposizione con la serialità dell’opera d’arte sulla quale, di lì a poco, congetturerà Benjamin. È paradossale che proprio Roussel asserisse di trovare oscuri gli approdi dei surrealisti che cercarono di annettere l’autore di Locus Solus all’interno del loro movimento, sostenendo con trasporto i suoi non troppo apprezzati spettacoli teatrali. Breton lo accoglie nella sua Antologia dello humour nero, tra i modelli iconoclastici di Jarry e Picabia, indicando che «Roussel è, con Lautréamont, il più grande ipnotizzatore dell’epoca moderna».

Si pensi all’importanza che rivestì per le avanguardie storiche il concetto di machine célibataire, tratto dal Locus Solus, che presenta sorprendenti analogie con la machine à décerveler di Jarry e che influenzò in maniera decisiva l’allestimento del Grande Vetro di Duchamp (si rimanda per approfondimenti allo storico catalogo Le macchine celibi, curato da Michel Carrouges). Non c’era d’altronde alcun intento dissacratorio nelle intenzioni di Roussel né tanto meno il presupposto di indagare, sulla falsariga della scoperta freudiana, l’universo onirico o dell’inconscio. Il procédé teorizzato da Roussel ha tratti fortemente differenziati rispetto all’automatismo surrealista, nonostante la casualità sia riscontrabile in entrambi i metodi.

Romanzi, poemi, pièces teatrali si basano sull’equivoco di misurarsi dialetticamente con un mondo scientifico (o parascientifico) a lui precluso. Viene scartato tutto ciò che risulta essenziale, eccettuata la compromissione con il «linguaggio del linguaggio» (Foucault) che, spesso, provoca un’involontaria comicità. È bandita qualsiasi verosimiglianza nell’excursus narrativo di Roussel, contrassegnato da una congerie inattendibile di macchinazioni e automi che attinge «indifferentemente al romanzo nero e sentimentale, al racconto poliziesco, alla fantascienza, al Grand-Guignol: senza trascurare la forma di tutte più fortunata, il fatto di cronaca registrato nelle pagine dei quotidiani», come precisa Gian Carlo Roscioni. Risulta perciò polemicamente inattuale la boutade di Éluard: «Possa Raymond Roussel continuare a indicarci tutto quello che non è stato».

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