In tutte le biografie di Raymond Chandler, incluse quelle di poche righe, viene immancabilmente ricordato che soltanto diciassette persone andarono al suo funerale. L’immagine calza a pennello con il cliché dell’uomo abbandonato dal mondo, il tipico eroe della Generazione Perduta cui in fondo egli apparteneva. E tuttavia, ciò che davvero merita attenzione non è tanto lo sparuto numero dei presenti quel giorno quanto che una buona parte di loro avesse conosciuto il defunto soltanto a distanza: per corrispondenza o leggendo i suoi libri. Chandler non fu mai un compagnone, ma negli ultimi anni, ovvero dopo aver lasciato Los Angeles per La Jolla, si isolò ancora di più. Segregato in casa con la moglie malata che lo teneva alzato fino a tarda notte, non aveva contatti sociali se non quelli epistolari. Le lettere, al contempo intime e distanti, erano una forma di scrittura ideale per un uomo del suo stampo. Spesso i corrispondenti erano persone con cui aveva contatti indiretti se non quasi sconosciuti, proprio come alcuni di coloro che andarono al suo funerale, tanto che fu lo stesso Chandler a dire che i suoi migliori amici erano quelli che non aveva mai incontrato. Non deve sorprendere dunque che il suo epistolario costituisca, tra le tante cose, una miniera di informazioni sulla sua creazione più nota, l’investigatore privato Philip Marlowe. «Lo vedo sempre in una strada vuota, in una stanza vuota, sconcertato ma mai davvero sconfitto» scrisse in una lunga lettera un mese prima di morire, parlando non della solitudine in generale ma di un tratto preciso e imprescindibile del personaggio, il celibato. Sempre in una lettera, raccontò come fosse riuscito a scrivere il suo libro migliore in un periodo di strazio immenso, vedendo sua moglie morire poco a poco: «Mi chiudevo nello studio e mi pensavo in un altro mondo. Di solito ci voleva un’ora almeno. E poi mi mettevo al lavoro». A dirla tutta, Il lungo addio (Adelphi, nuova e ottima traduzione di Gianni Pannofino, pp. 437, € 24,00) è non solo il suo libro migliore, ma tra i migliori di tutto il Novecento americano. Murakami Haruki, che lo ha tradotto in giapponese, lo mette accanto a I fratelli Karamazov e Il grande Gatsby in una triade di romanzi ideali. In effetti, Murakami ha  provato anche a riscriverlo: Nel giorno della pecora ne è il risultato. E non è il solo caso. Lo ha fatto anche Thomas Pynchon in Vizio di forma o un film come Il grande Lebowski e perfino Blade Runner sebbene nessuna di queste opere mostri somiglianze evidenti con il romanzo di Chandler. I richiami non riguardano la trama, e spesso neanche i temi, bensì qualcosa di più vago seppure molto palpabile; qualcosa che, con una parola, potremmo definire sentimento. In cosa consista questo sentimento in parte lo abbiamo già accennato: in una certa idea di solitudine, quella dell’uomo solo non in senso assoluto o eremitico, ma perché restio per natura alla possibilità di accasarsi. Marlowe non rappresenta certo una novità in questo senso.

Gli eroi della narrativa hard-boiled sono quasi tutti scapoli impenitenti, come del resto lo erano i loro antenati, i pistoleri e i cowboy dei western. E sono scapoli non perché insensibili al fascino femminile, ma perché votati all’ignoto, sempre pronti a rispondere al richiamo di un mistero da risolvere. Nel Lungo addio questa vocazione al celibato viene rimarcata in modo esplicito quando Marlowe rifiuta la proposta di matrimonio di una ricca signora con cui ha una breve relazione. Il lupo solitario potrebbe sistemarsi ma preferisce restare fedele al suo mestiere, ovvero a quei principi morali che fanno di lui un uomo indisponibile al compromesso e dunque condannato a restare in bolletta. Non si sposa perché incapace di accettare le convenzioni di una società perlopiù fondata sul denaro, ma la scelta è tutt’altro che facile. «La trama si infittisce e le persone si riducono a meri nomi. E cosa puoi fare per evitarlo?» si chiede Chandler in una delle sue lettere. «Puoi mettere tanta azione in quello che scrivi, sempre che la cosa ti diverta davvero. Ma si cresce ahimè, si diventa persone complicate e insicure, ci si interessa ai dilemmi morali anziché a chi ha spaccato la testa a chi. E a quel punto bisognerebbe farsi da parte e lasciare il campo a uomini più giovani e semplici». È con lo stesso spirito crepuscolare che il Marlowe del Lungo addio si chiede fino a che punto ci si possa comportare come un eroe di altri tempi senza sentirsi idioti. A differenza dei precedenti romanzi di Chandler, l’omicidio, che pure dovrebbe costituire il centro della storia, resta fuori dalla scena. Marlowe non scopre il cadavere né avvia alcuna indagine, anzi finisce addirittura in carcere perché – da idiota sentimentale qual è – in un nome di una vaga amicizia e dei suoi principi rifiuta di collaborare quando la polizia lo interroga sul principale sospettato, il marito della vittima. L’uomo gli ha chiesto aiuto e lui ha deciso di fidarsi. Non è dunque nei soliti panni del solutore che Marlowe si presenta, bensì in quelli della persona coinvolta nel caso. È parte di un mistero sul quale verrà sì fatta luce, ma senza che la consegna del colpevole alla giustizia sciolga la vera questione in gioco: «Che cosa spinga un uomo ad accettare una vita del genere non lo sa nessuno. Non si diventa ricchi, non capita spesso di divertirsi. A volte ti pestano o ti sparano o ti sbattono in prigione. Ogni tanto, più di rado, si finisce persino ammazzati. Un mese sì e uno no viene voglia di mollare tutto e di trovarsi un lavoro serio, almeno finché si è in tempo e non si mostrano i primi segni di senilità».

Per quanto sia un errore vedere nel personaggio un autoritratto dell’autore, nelle angustie di Marlowe è tuttavia possibile leggere un’eco dei dubbi letterari di Chandler. Venuto alla luce dopo molte revisioni e ripensamenti, Il lungo addio è di fatto la prolungata riflessione di un autore ormai sessantenne  sulle convenzioni di una certa narrativa e sul valore che essa può avere. Per alcuni versi, è anche una riflessione sullo scrivere in generale, sulla possibilità che sia un’attività troppo vana, un mestiere da sognatori troppo sentimentali, da lupi troppo romantici e solitari per questa valle di cinici e corrotti. Il che spiega anche perché tanti scrittori – e non solo scrittori – ne siano affascinati e provino a riscriverlo: perché è un modo di perpetuare ideali perduti con quella lunga e sottile agonia che è il dirsi addio.