Rastignano, gli ambientalisti avevano avvertito
Paletti, transenne, sponde arancioni plastificate, persino l’asfalto della strada: il cantiere del Nodo di Rastignano (Bo) è stato spazzato via dalla potenza delle acque del fiume Savena, qualche giorno fa. Qui si vuole costruire una strada ad alto scorrimento sulla riva del fiume, tra il comune di Bologna e quello di Pianoro.
Da mesi il parco del Paleotto è però scenario di lotte ambientali: «Da novembre 2022 hanno tagliato 1.157 alberi proprio sulla riva di quel fiume – racconta Cecilia Lorenzetti attivista dell’associazione Santa Bellezza, che insieme alle altre associazioni del territorio denuncia a gran voce lo scempio del progetto – Gli alberi tagliati erano parte della fascia ripariale, una sponda che tratteneva il terreno dalle erosioni e dalle esondazioni. Questi alberi oggi avrebbero potuto contenere il fiume e trattenere gli argini e attenuare la potenza dell’acqua. Per fortuna questa strada non è ancora costruita e transitabile. Immaginatevi cosa sarebbe successo se ci fossero state auto».
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Cementificazione, il triste record dell’Emilia-RomagnaIl Nodo di Rastignano è un’opera pensata venti anni fa, ma il Comune di Bologna è determinato a realizzarla. Quest’opera, come denuncia la Lipu, «viola le leggi del consumo di suolo e della tutela territoriale per i luoghi che ospitano specie protette».
«A Gennaio 2023 – ricorda Cecilia Lorenzetti – data la gravità della situazione e la preoccupazione dei cittadini che si sono ritrovati le ruspe “in casa”, abbiamo scritto una lettera firmata insieme ad altre 14 associazioni rivolta all’assessora Orioli, al sindaco Lepore, al presidente Bonaccini per chiedere di fermare il cantiere. Ma a quella lettera non è mai stata data risposta.
Ora i danni sono irreparabili, la grave alluvione è la dimostrazione evidente della follia di quel progetto e che la natura, alla fine, riprende il suo corso. Ora più che mai chiediamo di bloccare definitivamente il cantiere del Nodo di Rastignano».
Da Bologna a Forlì, le scelte poco lungimiranti che hanno portato agli effetti disastrosi, tra frane e esondazioni, sono molteplici. «Nelle nostre montagne in provincia di Forlì Cesena vaste aree forestali sono state disboscate, – spiega Ornella Mordenti, del Wwf Forlì – con la motivazione di creare zone antincendio e per una gestione delle foreste a ceduo, qui si tagliano gli alberi a raso, per poi bruciarli nelle centrali a biomassa. Vengono ripiantati poi alberi giovani che però non possono trattenere alluvioni né il vento forte, rendendo così i fianchi delle montagne molto fragili e a rischio di frana. La siccità di questo inverno e il terreno argilloso, hanno fatto il resto, riducendo la capacità di assorbire l’acqua che è finita tutta nei fiumi».
Quello che sarebbe davvero necessario ai fiumi romagnoli, secondo Ornella Mordenti, sono le casse di colmata e di espansione: «Solo il fiume Ronco ha casse di espansione come l’area naturale di Magliano e altri terreni che si sono riempiti e hanno così attutito la forza del fiume, nel Montone invece non ci sono casse di colmata, hanno costruito ovunque, cementificato gli argini a monte perché corresse più velocemente a valle. Così a Forlì è arrivato con una potenza spaventosa, alto vari metri sopra all’argine. Con questi livelli nessun argine può tenere. Anche il Lamone e il Senio sono in queste condizioni, senza casse di colmata e con gli argini molto alti per “velocizzare” la corsa dell’acqua, creando così solo più problemi a valle. Oltre ai fiumi, anche il canale Emiliano Romagnolo (Cer) è straripato e così tutti i canali suoi affluenti, allagando la bassa romagna. Sul fondo di questi canali si è depositata tanta melma, ramaglie e rifiuti, serve quindi manutenzione dei canali ma non si devono tagliare gli alberi sugli argini dei fiumi o sui pendii delle montagne, e soprattutto si devono lasciare ampie aree naturali e vegetazione ripariale dove il fiume può esondare senza far danni».
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