Esponente del quarto periodo del cinema palestinese, quello della seconda generazione dal Naqba, il grande esodo del 1948, Rashid Masharawi è cresciuto nel campo profughi di Al-Shati, a nord della Striscia di Gaza, da una famiglia di rifugiati da Giaffa, proveniente dal vecchio quartiere, poi demolito, di Manshiya. Negli anni ’80 e ’90 è stato l’unico regista in attività nella Gaza occupata, inaugurando una nuova era del cinema palestinese, non limitandosi a documentari e puntando su opere di finzione nei territori occupati, con crew esclusivamente locali. Nel 1996, dopo una parentesi all’estero, si trasferisce a Ramallah dove fonda il Cinematic Production Center per sviluppare il cinema palestinese e organizzare proiezioni nei campi profughi. Abbiamo incontrato Rashid Masharawi durante l’El Gouna Film Festival 2023, dove ha partecipato al panel «Camera in Crisis: A Lens on Palestine».

Come funziona la tua organizzazione di cinema mobile?
Il mio sistema di cinema mobile, il Cine Móvil, è iniziato con l’istituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese, dopo l’intifada. Ero fuori dalla Palestina e sono rientrato per far partire un centro di produzione locale. Per fare cinema c’era bisogno non solo di corsi ma anche di vedere i film, ma non c’erano le sale. Così ho concepito il Cine Móvil, che funzionava a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme con un programma per le nuove generazioni. Abbiamo organizzato un festival palestinese per bambini, il Festival de Cine infantil. Sono stato molto influenzato da Nuovo Cinema Paradiso, che avrò visto una decina di volte. Volevo far vedere altre immagini ai bambini che non fossero quelle dell’intifada. Vedevano solo violenza, morte, l’occupazione. Non volevo far vedere film pesanti, bensì quei film che gli altri bambini del mondo guardano, Braccio di Ferro, Charlie Chaplin, Mr. Bean, Il re leone, la Disney.

Il tuo film «Curefew» del 1994, il primo film di finzione realizzato a Gaza, racconta la vita sotto il coprifuoco. All’inizio un postino recapita lettere provenienti dall’estero, da Egitto, Giordania, Germania. Era un modo di connotare la condizione di rifugiati degli abitanti di Gaza, che hanno contatti con i luoghi d’origine o con altri palestinesi di una diaspora?
Corretto. Volevo anche mostrare la situazione della mia famiglia, fatta di rifugiati. Altre sono famiglie in esilio. È la situazione della Palestina. Trent’anni fa la condizione palestinese all’interno delle famiglie era quella. Eravamo considerati un numero e io cercavo di far capire come dietro quel numero ci fossero persone vere, esseri umani.

Il film «Haïfa», del 1996, dopo gli accordi di Oslo, si conclude con una marcia euforica nel villaggio, a Gaza. Ora, dopo tutto quello che è successo e sta succedendo, come valuti quel momento?
Sono una persona che ha speranza. Mi piace mostrarla in ogni film. Se non c’è, la invento per far sì che alla gente piaccia il domani. È il motivo per cui siamo in vita, per credere che il futuro sia migliore. Ero uno di quelli che consideravano un’occasione gli accordi di pace. Mi sforzavo di vedere le cose positivamente. Allo stesso tempo non ci credevo perché vengo da una famiglia di rifugiati da Giaffa. E negli accordi non c’era spazio per Giaffa, Haifa, Amka. I rifugiati sarebbero rimasti tali. Non avevamo ottenuto niente. Continuo a credere e ad avere speranza. Ma se penso oggi al film Haifa, dopo 27 anni, credo che siamo nella stessa storia. Siamo sempre sotto occupazione. Abbiamo gli stessi sogni di libertà, di uno stato nostro. Gli stessi palestinesi hanno molte divisioni. Alla fine, la manifestazione si intreccia con il funerale. Qualcosa è morto, una vecchia donna. La storia, la memoria, il nostro passato. Una donna che aspettava il ritorno dei suoi figli che non sapeva neanche dove fossero. E intanto la gente celebra Arafat e gli accordi di Oslo. Faremo, faremo, faremo! Chiesi all’attore Mohammed Bakri di pensare di piangere e ridere allo stesso tempo. Il close-up con quella sua espressione chiude il film. Il cinema non può trovare soluzioni o dare risposte, ma può porre delle domande.

Durante quella manifestazione, il venditore di una bancarella insiste per vendere un poster di Arafat a una persona che non vuole acquistarlo. Perché questa scena?
Ho cercato di mostrare la divisione del popolo palestinese. Alcuni sostenevano Arafat, che voleva dire in quel momento accordi di Oslo. Altri erano del tutto contrari e avrebbero potuto lottare per quello. Entrambe queste due persone erano me. Ed equivalgono al close-up finale del personaggio spaesato. Tutto ciò mentre il mondo mostrava il processo di pace palestinese, la celebrazione palestinese, lo stato palestinese che stava arrivando. Attraverso il cinema possiamo descrivere altre cose che non sono nei media, le storie vere delle persone sul campo.

«Laila’s Birthday» è un tuo film del 2008 ambientato a Ramallah. Emerge una visione critica dell’Autorità Nazionale Palestinese e un forte senso di disillusione. Quali sentimenti stanno dietro a quel film?
Avevamo e abbiamo tanti problemi come la corruzione. Ogni mese cambia un ministro. Nel film non si vede l’occupazione israeliana, ma c’è. Dappertutto nella società. Volevo mostrare questo rapporto di subordinazione nel comportamento della gente. Laila’s Birthday mostra come le cose non stiano funzionando. Volevo prendere tutte le cose negative e tirarne fuori cose positive. Per esempio, la torta, che era per il martire, alla fine viene regalata alla ragazza per il suo compleanno. Ho preso tanti elementi negativi per dire che possiamo convertirli in qualcosa di bello per i nostri figli, per il futuro.

Come mai un cliente del tassista del film ignora l’esistenza del Ministero della Giustizia palestinese?
Per spiegare che non puoi costruire istituzioni sane e professionali sotto l’occupazione. Devi essere libero, un vero governo. Non ci può essere un governo sotto occupazione. Il nostro presidente, per recarsi in Giordania, deve avere il permesso di Israele ogni volta. Un nostro ministro o un ambasciatore possono essere fermati o arrestati in un posto di blocco.

In una scena del film vari personaggi stanno guardando un servizio televisivo, in un bar. Credono sia in Palestina e identificano dei soldati come israeliani, per poi realizzare che si tratta di una ripresa in Iraq con militari USA. Cosa significa questa confusione?
Sono stato in Iraq dopo la guerra per un documentario sui bambini di Baghdad. Io stesso sono stato bambino a Gaza. Ho rivisto la stessa situazione. Di sera non ci era permesso uscire, come a Gaza. Eravamo in hotel con la security. Guardavo la TV, cambiando compulsivamente canale tra le frequenze irachene, per avere notizie da Gaza in guerra. Ogni volta pensavo di vedere Gaza e invece no, era l’Iraq. Un giorno mi telefonò mio fratello da Gaza. Gli dissi di essere a Baghdad e lui disse: «Cosa stai facendo lì? È pericoloso!». Ma era uguale a Gaza. Ci salutammo dicendo: «Stai attento!», «No, tu stai attento!».

In questo momento terribile, nutri speranze per un futuro di pace in Palestina?
Sono ottimista. L’occupazione non può durare per sempre, così come la guerra. Non puoi continuare a credere che dieci milioni di palestinesi non esistano. I palestinesi rimarranno lì per sempre. Israele sta spendendo soldi, equipaggiamento, forze armate, relazioni internazionali, promozione, per dire: «Questa terra è per noi». Noi palestinesi non siamo bravi, né in politica né militarmente. Ma è la terra stessa a dire: «Questa gente è per me». Stanno combattendo contro la terra, gli alberi, le montagne, il mare. Come si fa a vincere contro il mare? Possono distruggere tutti gli edifici e uccidere altre 20-30 mila persone. Ma non possono uccidere la storia, la memoria, i sogni della gente. Ora stiamo solo perdendo tempo e vite umane inutilmente, perché è chiaro che noi ci saremo sempre e loro non possono vincere. Non è possibile. Anche se lo vogliono, non è possibile.