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Rasheed Abueideh e «Liyla», un videogioco per non dimenticare

Rasheed Abueideh e «Liyla», un videogioco per non dimenticare

Games/Intervista Lo sviluppatore palestinese racconta il suo «Liyla and The Shadow of War», una esperienza interattiva molto particolare

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 27 gennaio 2024

Tutto finisce quando sembra cominciare, nel momento durante il quale pensiamo che quella della bambina Liyla possa prolungarsi in una delle «avventure» oscure e disperate che capita di vivere anche nei videogiochi, qualcosa di tetro e fittizio, anche se un’allegoria della realtà, che ci avvicina e al contempo allontana dal presente, ma Liyla and The Shadow of War non inventa l’orrore, prova a raccontarlo.

Invece quest’opera si spegne dopo circa una ventina di minuti, il suo dramma si consuma improvviso e terribile, con la perentoria crudeltà della vita, con l’imprevedibile irrimediabilità di un Game Over definitivo, gli occhi si chiudono per sempre e si intuisce che non c’è mai stata alcuna speranza, non ce ne è mai laddove cadono le bombe, volano i droni illuminati dai crudeli razzi-faro lanciati nella notte proprio affinché gli occhi impropri di macchine assassine possano identificare le loro vittime.

Liyla and the Shadows of War si trova da scaricare gratuitamente su telefoni e tablet Android, iOS e su PC, così lo si consiglia, per la sua illuminante sintesi e per la sua arte propedeutica, informativa e pittorica, anche a chi non è avvezzo ai videogiochi, una breve opera interattiva che funziona come affermazione disperata, come volontà di comunicare l’orrore attraverso un medium tanto diffuso affinché questo messaggio possa giungere a più persone possibili, ai ragazzi soprattutto, a tutte quelle milioni di persone che videogiocano in maniera occasionale senza bazzicare i sempre più ambigui se non orridi lidi di chi si definisce un vero «gamer».

Sviluppato da Rasheed Abueideh, del quale potete leggere qui una preziosa intervista a cura di Giulia Martino, Liyla and the Shadows of War racconta di una notte di bombardamenti a Gaza durante gli eventi del 2014 e alla fine del gioco potremo leggere gli esiti di quelle stragi, qualcuno lo «vivremo» straziati anche durante il videogioco, come quando assistiamo all’eccidio di quattro ragazzini che giocavano a pallone in spiaggia.

Muoviamo un padre per i quadri rotti, neri e grigi di una città che diventa progressivamente un rudere, una tetra monocromia già post-mortem come quella di Limbo dei Playdead ma qui alterata dal colore accecante delle esplosioni e dei razzi, unica variazione nel nero dominante che potrebbe essere persino salvifico, un rifugio laddove la luce uccide sempre. Si conduce quest’uomo presso la propria casa, lo vediamo ricongiungersi alla moglie e alla figlia Liyla, poi insieme fuggire in un incubo ad occhi aperti, troppo vero per essere equivocato come un sogno. Ci si muove con stanchezza e una strana, lunare lentezza, qualche volta prendendo drastiche decisioni che possono portare ad esiti terribili ed immediati, fino alla conclusione, quando ogni scelta è ormai inutile.

La brevità di Liyla and the Shadows of War, in un oceano di esperienze che durano ore, non risulta essere effimera ma funzionale, un tempo giusto e significativo, quello di una cosa bella in un’accezione non estetica ma «keatsiana» di una verità che con la bellezza coincide, una cosa che trascorre e muore lasciando un fantasma di sé, uno spettro triste ma rivelatore.
La sintesi assoluta di Liyla and the Shadows of War è quindi quella di una «canzone» laddove questa è intesa come componimento poetico formato da un numero limitato di strofe, le stanze, che usa concludersi con un commiato, riferito in molti casi proprio a chi legge quelle parole.

Così quindi è in Liyla, il cui contenuto ci muove a riflettere oltre il suo potentissimo messaggio umano, filosofico e politico, sulla reale necessità di esperienze ludiche che si «eternano», sulla possibilità di gestire il tempo di un videogame come si può organizzare quello necessario per una novella, un sonetto o di un film, il quale può esprimersi anche in un cortometraggio di pochi minuti. Liyla and the Shadows of War non è un «viaggio al termine della notte», perché comincia al buio di un giorno oscurato dai fumi delle deflagrazioni e alla fine della notte non giunge mai. Non c’è risveglio.

La storia del videogioco ci ha insegnato, soprattutto attraverso le sue recenti derive, che di gioco e quindi di divertimento, nel videogame può non essercene affatto, con sommo e recalcitrante disappunto di chi invece vorrebbe solo l’ennesimo oggetto per trastullarsi ed assaporare il ludibrio omicida di un soldato, sebbene esistano opere davvero spassose che sono necessarie e balsamiche senza di fatto essere scervellate o che forniscono, anche nel caso ci facciano «uccidere» dei pixel, un contesto narrativo che non sembra quello imposto in una maniera un poco subdola da un ufficio di reclutamento.

Ancora una volta opere come Liyla and the Shadows of War ci inducono quindi a riflettere sul termine ormai obsoleto di videogioco per tante invenzioni interattive. Senza nulla togliere comunque al concetto di «videogame» come esercizio ludico, è necessario coniare una parola nuova, un neologismo che indichi un nuovo insieme artistico e mediatico.
Il talento, la poetica e l’etica di Rasheed Abueideh sono evidenti nella sua «canzone» numerica, così non si può che vagheggiare un suo nuovo lavoro, un componimento novello che si aggiunga alla tragedia di Liyla e che la possa superare; si avveri dunque un desiderio di arte, quindi di vita, che possa germogliare laddove oggi è tutto precario, incerto, spaventoso, indicando una possibile fine dell’orrore.

***

L’intervista allo sviluppatore palestinese Rasheed Abueideh
di Giulia Martino

«Quando vivi in una zona di guerra e la morte insegue te e i tuoi cari, gli eventi hanno un peso differente e le scelte diventano più difficili». Comincia così la descrizione su itch.io del videogioco Liyla & The Shadows of War, creato dallo sviluppatore Rasheed Abueideh per presentare al mondo la dura realtà della vita a Gaza durante la guerra del 2014. Abbiamo intervistato Abueideh, al momento al lavoro su un videogioco incentrato sulla Nakba, mentre la guerra continua a infuriare in Palestina.

Quale è stato il percorso di vita che ti ha portato a dedicarti alla creazione di videogiochi?
Vivo in Palestina, nella città di Nablus, un luogo ricco di storia e di bellezza. Sono padre di cinque bambini. Ho studiato ingegneria informatica e poi lavorato come ingegnere informatico per varie compagnie locali e internazionali. Lotto ogni giorno per tentare di condurre con la mia famiglia una vita normale sotto l’occupazione israeliana che controlla ogni aspetto delle nostre esistenze, e che rende estremamente difficili anche le cose più semplici, come portare i bambini a scuola. L’impegno costante per mantenere una parvenza di normalità dinanzi a una simile soggezione è estenuante da un punto di vista mentale ed emotivo.

Quando e perché hai iniziato a sviluppare videogiochi?
Alimentato dalla mia passione per i videogiochi, utilizzavo le mie capacità come programmatore per creare giochi per hobby. Il mio interesse è diventato più profondo quando ho studiato le teorie del game design: ciò mi ha portato a creare uno studio di sviluppo di videogiochi. Nel 2011 abbiamo iniziato a sviluppare videogiochi con finalità commerciali. Il nostro percorso è stato irto di sfide, tra cui il mancato riconoscimento internazionale della Palestina come Stato autonomo. Questa mancanza di riconoscimento è diventata un ostacolo enorme, specialmente quando abbiamo iniziato a distribuire i nostri videogiochi su piattaforme come Google Play e App Store. Sono sorte complicazioni a causa dell’impossibilità di collegare i nostri giochi ai nostri conti bancari palestinesi: ciò ci rendeva impossibile la ricezione dei pagamenti.

Le sfide non sono finite, e ci siamo trovati di fronte ostacoli significativi a causa dell’assenza di fondi e investimenti specifici nell’industria videoludica palestinese. Vivo in un luogo in cui si lotta ogni giorno per soddisfare bisogni umani di base, e questo lascia poco spazio per investire in un’industria così rischiosa, soprattutto a causa della nostra visibilità limitata verso il resto del mondo. Date queste circostanze, ho preso la difficile decisione di chiudere lo studio di sviluppo.

Nel 2014, una guerra devastante ha avuto luogo a Gaza, e ha lasciato degli strascichi indescrivibili. Mi sentivo frustrato a causa della pessima rappresentazione della storia palestinese nei media mainstream, e così ho preso l’impegno di aumentare la consapevolezza sulla nostra situazione. Ho deciso di creare un videogioco che potesse rappresentare la dura realtà della vita a Gaza durante gli attacchi israeliani, così gettando luce sulle condizioni umanitarie in cui si trovavano famiglie e bambini nella regione. L’obiettivo era quello di offrire una prospettiva diversa e promuovere empatia verso le difficoltà sopportate dagli abitanti di Gaza.

Dato che non avevamo fondi per questo progetto, ho collaborato con un gruppo di volontari e abbiamo lavorato nel nostro tempo libero. È stato un percorso impegnativo, non soltanto per le lunghe ore che abbiamo investito per portarlo a termine, ma anche perché il gioco ci ha tenuti immersi nell’atmosfera della guerra per due anni.

Questo videogioco, chiamato «Liyla and The Shadows of War», pubblicato nel 2016, non è stato considerato un «gioco» da Apple quando è uscito. Come ti sei sentito a causa di questa situazione?
Liyla and The Shadows of War è un videogioco che segue la vita di una bimba a Gaza durante la guerra del 2014, un conflitto che ha reclamato le vite di più di 2.100 palestinesi, di cui 538 bambini. La paura che le voci provenienti dalla Palestina venissero silenziate o mal rappresentate sui media mainstream e sulle piattaforme social era costante. Nonostante numerosi accorgimenti nel design e l’assenza di termini o simboli politici per minimizzare i rischi, il gioco è stato rimosso dall’App Store. È impossibile descrivere la mia frustrazione e la mia incredulità quando lo sono venuto a sapere: si tratta di un videogioco che mira esclusivamente a condividere un’esperienza umana nel corso di un conflitto.

E cosa hai provato vedendo le proteste che hanno portato Apple a tornare sulla sua decisione e a rendere disponibile «Lyila & The Shadows of War» su App Store?
Il supporto di videogiocatori e sviluppatori di tutto il mondo, che alla fine ha portato Apple a ritornare sui suoi passi, è stato davvero inaspettato. Sono stato genuinamente sorpreso dalla risposta positiva al gioco ed estremamente grato per lo sforzo collettivo che è riuscito a realizzare questo cambiamento.

Il canale YouTube People Make Games ha realizzato un video sulla situazione a Gaza in cui hai annunciato di stare lavorando a un videogioco sulla Nakba. Ci spiegheresti che cos’è la Nakba?
«Nakba» vuol dire «catastrofe» in lingua araba. Con questo termine indichiamo la cacciata violenta di noi palestinesi dai nostri territori, accompagnata dalla distruzione della nostra società, della nostra cultura, della nostra identità, dei nostri diritti politici e aspirazioni nazionali. Questi eventi traumatici si sono verificati durante e dopo la guerra in Palestina del 1948, segnata dalla creazione di Israele sul 78% dei territori dell’allora Mandato britannico della Palestina, con l’espulsione e la fuga di 700.000 palestinesi e lo spopolamento e la distruzione di più di 500 insediamenti palestinesi da parte di milizie sioniste e, in seguito, da parte dell’esercito israeliano. Ai palestinesi è stato impedito di tornare nelle loro case, e ciò ha generato lo status permanente di rifugiati per i palestinesi, con la creazione di una profonda spaccatura nella nostra società. La Nakba è tutt’oggi un capitolo centrale e gravido di conseguenze nella storia dei palestinesi: la narrativa nazionale palestinese considera la Nakba come un trauma collettivo che definisce la nostra identità come popolo.

Puoi raccontarci qualcosa sul tuo videogioco incentrato sulla Nakba?
Ho scelto di focalizzarmi sulla storia di una giovane donna e sulla sua vita nel corso della Nakba. Parlando delle sue esperienze di fuga dai massacri, dell’esodo forzato dalla sua casa e dal suo villaggio e del viaggio verso un campo di rifugiati, il gioco avrà il potenziale necessario per umanizzare la narrativa storica e gettare luce sulle tragedie di quell’epoca. Attraverso il suo punto di vista, i giocatori potranno comprendere maggiormente le difficoltà affrontate dagli individui durante questo periodo travagliato della Storia, e apprezzare la resilienza di coloro che l’hanno vissuto. Questo tipo di storytelling ha il potere di creare empatia e di contribuire a una più profonda comprensione del costo umano degli eventi storici.

Cosa sta significando l’attuale guerra per la tua vita?
A livello mentale, è difficile comprendere la magnitudine di ciò che sta accadendo: sembra tutto confinato al regno dell’immaginazione. È in atto un genocidio nei nostri confronti. Non vivo a Gaza ma assistere a questi eventi è comunque terribile, e il supporto di certi governi occidentali a Israele rende il tutto ancora peggiore. Al momento, tutte le città palestinesi, inclusa Nablus, sono sotto attacco da parte dell’esercito e dei coloni israeliani. Ciò porta i palestinesi a essere uccisi e rapiti ogni giorno. I checkpoint militari presenti su ogni strada umiliano noi palestinesi e rendono le nostre vite sempre più difficili. Aprendo Facebook, trovo avvisi sponsorizzati che avvertono noi palestinesi che viviamo nel West Bank del fatto che ciò che sta accadendo a Gaza potrebbe succedere anche a noi.

Pensi che i videogiochi possano migliorare la situazione in Gaza e in Palestina?
Il medium videogioco è uno dei più potenti. I videogiochi sono coinvolgenti, divertenti, e hanno una audience ben più grande rispetto a tanti altri media. Da un punto di vista personale, utilizzo i videogiochi come uno strumento per aumentare la consapevolezza sulla storia della Palestina. L’obiettivo è fornire alle persone gli elementi per comprendere le radici profonde del genocidio e della pulizia etnica che noi palestinesi stiamo subendo oggi.

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