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Raoul Romano: «Piantiamo alberi? È solo uno slogan, basta emissioni»

Raoul Romano: «Piantiamo alberi? È solo uno slogan, basta emissioni»Incendio nei territori di Giarratana (Ragusa); in basso Raoul Romano – Ansa

Intervista «Piantare alberi è una foglia di fico, per coprire un mondo che vive di emissioni. Bisogna ridurle, anche sviluppando una filiera forestale», spiega l’economista forestale e ricercatore del Crea

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 20 agosto 2022

«Se vogliamo rendere più sicuri i nostri boschi di fronte agli incendi, dobbiamo imparare a gestirli in modo responsabile, cioè pianificando gli interventi per i prossimi 15 o 20 anni» spiega Raoul Romano, economista forestale, ricercatore del Centro per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea). «In relazione al cambiamento climatico dobbiamo ‘indirizzare’ lo sviluppo della superficie boschiva, valorizzando ad esempio quelle piante che resistono a lunghi periodi di siccità o non favoriscono l’innesco o la propagazione delle fiamme».

Romano è tra gli estensori della Strategia forestale nazionale, diventata legge a febbraio con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Nasce per «portare il Paese ad avere foreste estese e resilienti, ricche di biodiversità, capaci di contribuire alle azioni di mitigazione e adattamento alla crisi climatica». La Legge di Bilancio 2022 prevede per la «Tutela e sviluppo del patrimonio forestale» lo stanziamento di 420 milioni fino al 2032, «40 milioni all’anno per la pianificazione e la gestione dei boschi, che temo possono essere tolti dal prossimo governo» sottolinea il ricercatore del Crea. È già successo nel 2008, al Programma quadro per il settore forestale elaborato dal governo Prodi e finanziato con 5 milioni di euro all’anno. «L’anno dopo è arrivato Tremonti, che gli ha tolti. Un Programma senza risorse resta inattuato.

Per Romano gli slogan da campagna elettorale, che siano «piantiamo più alberi» o «salviamo le nostre foreste dalla deforestazione», non reggono la prova della realtà. «Abbiamo quasi 13 milioni di ettari di bosco, in media negli ultimi quarant’anni ne sono bruciati meno 100mila all’anno: gli incendi esistono, anche perché sono per lo più dolosi, ma per affrontare il problema si deve scegliere di agire in un modo diverso».

Come?

È aumentata la superficie coperta dai nostri boschi e anche la densità degli alberi, che sono più vicini. Aree che prima venivano coltivate oggi sono boschi in fase evolutiva, sempre più vicino alle case: il problema, in Italia e in tutta l’area del Mediterraneo, è che non essendoci più pascoli o aree coltivate un incendio rischia di essere pericoloso per l’uomo. Gestire il bosco significa fare in modo che si riducano i rischi, sempre assecondando il contesto naturale: ci dev’essere meno biomassa, altrimenti si creano fronti di fuoco con temperature talmente alte che il passaggio del Canadair è inutile ed è impossibile l’intervento a terra. Dal 2017 in Italia questo è sempre più evidente. E per questo si preferisce intervenire unicamente quando è a rischio l’incolumità dei beni e delle persone. Siamo di fronte a vere «tempeste di fuoco», come le hanno chiamate in Portogallo, dopo che nel 2017 l’ondata di calore ha attraversato la carreggiata di una strada che attraversava il bosco, carbonizzando le auto e le persone all’interno. Gestire un bosco significa fare interventi di alleggerimento della massa a rischio incendio, realizzare piste tagliafuoco, ripulire i bordi delle strade, ripristinare aree d’interruzione. Come quelle linee di sassi che costruivano i pastori in montagna, e che quando sono pulite dai rovi bloccano il fuoco.

Quali sono le specie che resistono meglio?

Quelle della macchia mediterranea, ad esempio, capaci di rigettare subito dopo il fuoco. Le immagini di Pantelleria negli ultimi giorni ci hanno colpito, ma se tornassimo là a settembre o ad ottobre vedremo di nuovo chiazze di verde, nuovi getti figli di una capacità vegetativa sotto-terra delle specie arbustive. Anche alcune specie arboree, come il pino marittimo o la quercia da sughero sono abituate a convivere con il fuoco. Gli interventi di rimboscamenti fatti con l’eucalipto negli anni 50 in Sicilia, Sardegna o Calabria, invece, oggi ci regalano dei «cerini in piedi», boschi con grande capacità incendiabile. Quei boschi, che vennero messi per migliorare il soprassuolo, non sono mai stati tagliati né gestiti.

Quindi invece di «piantare più alberi» si dovrebbero «gestire più alberi»?

Gli slogan che mi indignano da anni, oggi mi colpiscono ancora di più perché siamo in una campagna elettorale in cui il cambiamento climatico e l’adattamento della società dovrebbero essere al centro dell’attenzione, come questo lungo periodo di siccità che avrà ripercussioni per i prossimi 5 anni. Non sono contrario all’idea che si possano piantare 60milioni di alberi nei prossimi 6 o 7 anni, ma dovremmo ragionare sul fatto che questi alberi avranno una potenzialità nella riduzione della CO2 tra 30 anni, mentre noi abbiamo un problema da affrontare nei prossimi dieci. In più, le piante servono magari in città, per ridurre l’effetto delle isole di calore, ma se piantassimo alberi sulle superfici agricole non faremmo una scelta lungimirante. In più, il 37% della superficie italiana è coperta di boschi. Se dobbiamo aumentarla, va fatto in modo consapevole: intervenendo su aree degradate, ex aree industriali, per innescare meccanismi di riequilibrio.

Piantare alberi è considerata una panacea, ma è una foglia di fico, per coprire un mondo che vive di emissioni. La realtà è che si devono ridurre le emissioni, anche sviluppando una filiera forestale. Chi entra nella Sala dei 500, a Firenze, vedrà un soffitto realizzato usando quercia e abete, legname del Casentino. Lì dentro c’è l’aria che respirava Dante: quello è un tetto fatto stoccando emissioni. Se usassimo di più il legno nei processi produttivi, ridurremmo le emissioni rispetto all’uso di materiali “sintetici” come il cemento.

 

 

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