Insieme nomade e cartografo, esploratore e pellegrino, viandante e globetrotter, del viaggio Christoph Ransmayr ha fatto una chiave. Fin dalle prime, acerbe, eccentriche note etno-geografiche per il settimanale viennese «Extrablatt» tra la fine dei Settanta e i primi Ottanta, attraverso Gli orrori dei ghiacci e delle tenebre, Il mondo estremo e Atlante di un uomo irrequieto, lo scrittore austriaco ci ha portato, su passi spesso smaniosi ma non casuali, dalla Cina al Marocco, dalle valli alpine dell’Alta Austria alla Sierra Nevada, dall’Artico al deserto. Le sue scritture non sono mai diari di bordo, memorie topografiche, taccuini o portolani letterari, spigolature di ricordi adatte all’esausta sigla del «libro di viaggio». Si tengono lontane dai resoconti odeporici, dalle memorie da pellegrinaggio o da grand tour, da sversamenti di impressioni, ingenue o ciniche, con richiami nobilitanti all’Odissea o concessioni (pseudo)democratiche al turismo globale. Prima di tutte le giacchette postmoderne che fin dagli esordi gli sono state cucite addosso, lo homo viator di Ransmayr è figlio del primo Romanticismo, dell’illimitata, inappagata, inconclusa spinta al movimento, lo sguardo sempre avanti, mai sazio di mete, mai volto all’indietro, verso bolse e reazionarie nostalgie.

Non abito alla moda, ma impulso consustanziale e pungolo gnoseologico, il viaggio di Ransmayr evita di cercare pretesti e, proprio come la peregrinazione romantica ma in versione hi-tech e multimedia, trova in sé dignità e legittimazione. Tra le scritture più difficili da definire – nella terra di nessuno tra il racconto, il ricordo, la rievocazione, il quadro esperienziale, il saluto, il commiato, il ringraziamento, l’augurio, dove gli orli dei generi sono sempre sovrapposti e concorrenti – L’inchino del gigante Cinque brevi libri di viaggi e metamorfosi (nitida traduzione di Marco Federici Solari, L’orma, pp. 241, € 22,00) racchiude dieci prose, nate su occasione – il compleanno dell’editrice Monika Schoeller o di Hans Magnus Enzensberger, il conferimento del Premio Kafka, del Premio Hölderlin, del Premio Wildgans o del Premio Mondello, il reading al Festival di Salisburgo, il primo anniversario della morte del filosofo Karl Markus Michel, il pensionamento del regista Claus Peymann, dominus del Burgtheater viennese. Dieci accidenti che diventano, ancora una volta, trigger per dislocare lo sguardo, spiazzare l’orientamento, con multiple linee di fuga verso il Kashmir, il Nepal, il Bhutan, il Tibet, i villaggi tamil dello Sri Lanka, il golfo del Bengala, la costa irlandese, il Mar Cinese Meridionale, l’isola della Riunione, le nevi a distesa dell’Himalaya o un boschetto di ulivi nei pressi di Corleone. E compagni di viaggio di volta in volta diversi, chiamati per nome o lasciati all’intuito, da Enzensberger a Reinhold Messner.

Diversamente da quanto suggerisce molta critica, il paragone con Chatwin è improprio, perché le istantanee di Ransmayr non somigliano affatto agli sconfinati giri da uccello migratore, agli ampi grandangoli tra fisica e metafisica, tra raffigurazione documentaria e apertura enciclopedica, tipici dello scrittore britannico. Pur descritti con toponimi precisi, esatte latitudini e longitudini, uno specifico lessico geologico, botanico, zoologico, i paesaggi di Ransmayr sono francobolli ben ritagliati che entrano nel campo visivo per poi dileguare, improvvise fate morgane sospese a mezz’aria tra realismo e funzione simbolica, evocati di colpo a intervallare o a interrompere una storia che parla d’altro, e altrettanto rapidamente dissolti.

Il volume dell’Orma contiene altri quattro testi, tra discorso, allocuzione, ricordo, cammeo, semplice storia: tra questi, particolarmente significativo Signore e signori sott’acqua, una storia per immagini che accompagna le fotografie underwater dell’artista Manfred Wakolbinger, riprendendo il tema ovidiano già caro a Ransmayr, con echi kafkiani fin troppo perspicui: scampoli di un’umanità varia e incapace di meraviglia, scontenta e idrofobica che, di punto in bianco, si trasformano in creature sottomarine e abissali, ancora senzienti e epifanicamente comunicanti in una lingua universale dove, sulla frequenza delle onde radio, si rimargina una volta per tutte la frattura babelica. Una Wunderkammer subacquea e insieme un virtuosistico gioco narrativo in cui tuttavia – come nelle pagine «di viaggio», quando l’occhio è al cospetto della muta elementarità naturale – la parola si rastrema e la civiltà, nel suo groviglio di sofisticatezze e sopraffazioni, mostra chiaro e irrevocabile il fallimento, si azzera per poi magari ripartire, in un luogo dove «raggiunta infine l’assenza di ogni complessità, tutto potrebbe ricominciare da capo e condurre forse, questa volta, a risultati più convincenti».