Dal primo febbraio il Myanmar è ricaduto nuovamente nel baratro dell’autoritarismo: la giunta militare (meglio nota come Tatmadaw), guidata dal generale Min Aung Hlaing, ha arrestato la leader della Lega nazionale per la Democrazia Aung San Suu Kyi e altre figure di spicco del partito che alle elezioni parlamentari dello scorso novembre aveva ottenuto l’83% dei voti.

I militari hanno instaurato un governo fantoccio, imponendo nel Paese la legge marziale e il divieto di aggregazione in modo da evitare rivolte popolari. Il generale Min ha affermato che la scelta del Tatmadaw è dipesa dalla necessità di mettere in sicurezza la sovranità del Paese e avrebbe promesso entro un anno nuove elezioni «libere e democratiche». Dopo quasi un mese dall’inizio del golpe, la tensione si è alzata notevolmente a causa delle prime vittime registrate tra i manifestanti.

Ranieri Sabatucci, ambasciatore dell’Unione europea in Myanmar, ha risposto ad alcune domande fornendoci una visione più specifica di ciò che sta avvenendo nel Paese.

Ambasciatore Sabatucci, è passato quasi un mese dall’inizio del colpo di Stato della giunta militare e le manifestazioni popolari stanno diventando sempre più ampie: come si sta evolvendo la situazione nelle strade?

Ciò che stiamo osservando è una progressiva polarizzazione delle parti: il movimento di disobbedienza civile si sta organizzando sempre di più, rendendo più efficace il modo di manifestare il dissenso e creando azioni di disturbo al fine di minare il normale svolgimento dell’economia del Paese e colpendo gli interessi economici dei militari. Per il momento i militari hanno limitato episodi di repressione violenti di massa: purtroppo ci sono state delle vittime giovani, ma al momento si tratta ancora di episodi sporadici. La repressione viaggia invece nel limitare e controllare internet e nel continuo arresto dei leader del partito, di Aung San Suu Kyi, di attivisti, giornalisti ma anche di personaggi dello spettacolo che si sono schierati in favore della democrazia. Il parziale equilibrio che vi è al momento è però artificiale e instabile: il pericolo di un deterioramento della situazione è altissimo.

L’ambasciatore italiano Raniero Sabatucci

Il Myanmar è un Paese multietnico ma, nonostante le profonde differenze, in quest’occasione in molti si sono uniti per manifestare contro la giunta militare. Crede che la speranza di una ripresa della transizione democratica possa spingere sempre più persone a scendere nelle strade per continuare a protestare?

Le manifestazioni di dissenso sono amplissime e stanno coinvolgendo praticamente tutti i settori e gli strati sociali: lavoratori pubblici, professionisti e soprattutto gli studenti. Sono manifestazioni pacifiche, in cui la solidarietà tra i settori del Paese si accompagna alla solidarietà tra generazioni, dove ad esempio i più anziani offrono da mangiare agli studenti che si operano a continue iniziative di disturbo sociale. A questo bisogna aggiungere che molti gruppi etnici, spesso in conflitto con il potere centrale e in disaccordo con l’etnia Bamar, hanno espresso la loro solidarietà al movimento di disobbedienza civile e si oppongono al ritorno del regime militare.

A fine gennaio il generale Min Aung Hlaing aveva parlato della possibilità di un intervento della giunta militare qualora fosse stata in pericolo «l’unità e la sovranità del Paese»: era quindi auspicabile un colpo di Stato oppure non si pensava a una decisione così drastica da parte del Tatmadaw?

No, il colpo di Stato ha colto tutti di sorpresa: sembrava un atto oramai confinato nelle pagine della storia dolorosa del Myanmar. Si pensava che i dissidi fossero estremamente forti e le parti ancora distanti, ma nessuno credeva che si sarebbe arrivati a tanto.

Da quando sono iniziate le manifestazioni, si sono registrate alcune vittime a causa degli scontri con i militari. Teme che nelle prossime settimane vi possa essere un’escalation nell’uso della violenza incondizionata da parte dell’esercito?

Sì, questo è un pericolo reale. Il movimento continua a essere estremamente popolare e mostra flessibilità nell’alternare l’uso di misure di disturbo che i militari hanno difficoltà a contenere con misure repressive di bassa intensità. Già oggi osserviamo un’escalation nella risposta dei militari e temiamo per le prossime giornate dove sono previste altre manifestazioni ad elevata partecipazione (proprio domenica ci sono stati 18 morti durante le rappresaglie nella città di Yangon).

Gli Stati uniti hanno imposto nuove sanzioni economiche per il Myanmar mentre la Cina auspica il ritorno alla stabilità nel Paese: dal differente approccio, lei crede che il Myanmar possa diventare un ulteriore terreno di scontro tra Washington e Pechino?

Il confronto diventa ovviamente più aspro. I cinesi in questo momento hanno difficoltà a definire una strategia d’intervento poiché tradizionalmente sono visti con un certo sospetto in Myanmar: troppo grandi, potenti e con forti interessi nell’economia del Myanmar. Recentemente hanno investito molto nella relazione diplomatica con il governo civile di Aung San Suu Kyi, offrendo sostegno in ambito del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite in seguito alla tragedia dei Rohingya. I militari sono anche loro molto diffidenti verso i cinesi, visti come sostenitori dei gruppi etnici attualmente in conflitto con il potere centrale. Per quanto riguarda gli Stati uniti, insieme all’Unione europea e alle Nazioni unite, hanno subito condannato il colpo di Stato e questa scelta è stata immediatamente apprezzata dalla popolazione civile.

L’Unione europea appunto ha condannato il colpo di Stato: qualora vi sia un incremento dell’uso della violenza negli scontri, come si muoverà l’Ue nei confronti della giunta militare?

L’Unione europea ha chiaramente indicato che sta considerando misure e sanzioni per colpire gli interessi economici di coloro che sono responsabili di questo golpe. È stata espressa anche la volontà di evitare sanzioni che colpiscano la popolazione generale. Allo stesso tempo l’Ue sta lavorando attraverso tutti i canali possibili e immaginabili sia in ambito interno al Myanmar sia con tutti i partner e le sedi internazionali, in modo da evitare un’escalation violenta ed eventualmente per favorire al più presto il ritorno della democrazia.

Hong Kong 2019, Thailandia 2020 e ora Myanmar 2021: il sud-est asiatico scende nelle strade per la democrazia. Secondo lei, con l’appoggio di altri attori internazionali, questi Paesi possono vincere le loro battaglie democratiche oppure gli interessi strategico-economici rendono la “democrazia” ancora un sogno distante?

È difficile dire se tutto questo porterà a uno spazio più ampio di democrazia e libertà in tutta la regione: i giovani sembrano molto impegnati e determinati a far sì che accada. Il loro impegno, determinazione e spirito nelle manifestazioni quotidiane in Myanmar sta aspirando tantissimi altri e merita la massima ammirazione e sostegno. I giovani sono quelli che hanno più diritto di definire il futuro in Myanmar e più in generale ovunque. Il Paese, ma anche la regione, ha già pagato un prezzo elevatissimo per il fatto che la loro storia è stata marcata da una presenza diffusa e di lungo periodo di regimi militari o autoritari. Aspirano alle stesse cose alle quali aspirano i giovani di tutto il mondo: un reale progresso democratico darebbe loro le ali per vivere la vita che desiderano.