Ramy Shaath: «O sei egiziano o sei libero. Al-Sisi vive grazie all’Europa»
Medio Oriente Intervista all'attivista palestinese-egiziano, detenuto per due anni e mezzo e costretto a rinunciare alla cittadinanza: «L’accordo sul gas è l’esempio di una narrativa coloniale fondata su occupazione israeliana e regimi arabi. Oggi, più degli Usa, è l’Europa che fa del male al Medio Oriente. Il regime ha imparato la lezione sbagliata da piazza Tahrir: invece di riconoscere diritti e redistribuire la ricchezza, ha fondato se stesso sulla paura»
Medio Oriente Intervista all'attivista palestinese-egiziano, detenuto per due anni e mezzo e costretto a rinunciare alla cittadinanza: «L’accordo sul gas è l’esempio di una narrativa coloniale fondata su occupazione israeliana e regimi arabi. Oggi, più degli Usa, è l’Europa che fa del male al Medio Oriente. Il regime ha imparato la lezione sbagliata da piazza Tahrir: invece di riconoscere diritti e redistribuire la ricchezza, ha fondato se stesso sulla paura»
«L’Egitto è diventato la Repubblica della paura. Non conosco nessuno che non abbia paura, può anche non dire una parola ma è comunque terrorizzato: potrebbe essere vessato senza motivo dalle autorità». Ramy Shaath è palestinese, è egiziano ed è un ex prigioniero politico del regime di al-Sisi. Dopo due anni e mezzo in custodia cautelare è stato rilasciato lo scorso gennaio: libero in cambio della deportazione in Francia.
La scorsa settimana l’Egitto ha firmato un accordo con Israele e Unione europea per fornire gas ai paesi Ue. Da palestinese, da egiziano e da ex prigioniero politico di un regime che fa dell’impunità fonte di sopravvivenza, quali immagina possano essere le conseguenze per palestinesi ed egiziani?
È la continuazione di una politica di breve termine, dell’assenza di una visione europea strategica. È la narrativa coloniale che governa il Medio Oriente da 70 anni, fondata su occupazione israeliana e dittature arabe. Questo permette al regime egiziano di proseguire in una repressione senza precedenti, sotto gli occhi dell’Europa. Non si tratta solo di gas, ma di collaborazione nell’ambito dell’antiterrorismo, finanziamenti da miliardi di dollari per il settore energetico, sostegno militare usato per reprimere attivisti in tutto il paese. Se negli ultimi anni, con Biden, ci sono stati segni minimi di boicottaggio da parte Usa del regime di al-Sisi, il trattenimento di piccole quantità di aiuti militari come simbolo di opposizione alle violazioni dei diritti umani, dall’altra parte l’Europa incrementa la cooperazione militare e commerciale. Oggi è l’Europa che sta facendo del male ai popoli del Medio Oriente sostenendo l’occupazione israeliana e le dittature arabe.
L’Italia mantiene rapporti stabili con l’Egitto nonostante i casi di Giulio Regeni e Patrick Zaki e le riconosciute violazioni dei diritti umani. Lo stesso fa l’Europa affermando che l’Egitto è fonte di stabilità nella regione. È possibile considerare un regime che terrorizza il proprio popolo fonte di stabilità?
È una stabilità falsa, di breve periodo, la stabilità dei leader a cui interessa garantirsi per i pochi anni che restano al potere, disinteressandosi degli interessi europei sul lungo periodo. Ci potrà essere stabilità solo senza paura e repressione e con una vera democrazia. Quella egiziana è da sette anni la seconda nazionalità per arrivi via mare verso l’Europa. È un paese che svende il gas mentre va in bancarotta: dopo i miliardi arrivati da Europa, Stati uniti, Fmi, l’Egitto è in bancarotta perché quei soldi servono a sostenere un regime militare corrotto. L’Italia ha venduto ad al-Sisi 11 miliardi di dollari in armi e il suo apparato militare addestra i servizi e la polizia: gli stessi che abusano di noi ogni singolo giorno, che torturano migliaia di persone nelle carceri, sono stati addestrati in Italia l’ultima volta lo scorso gennaio. Patrick Zaki è ostaggio in Egitto per fare pressioni sul governo italiano perché chiuda il caso Regeni. Al ministro degli esteri italiano ho detto di lasciar perdere il vostro sistema giudiziario e di rivolgersi alla Corte penale internazionale: gli ufficiali che hanno ucciso Regeni non hanno agito per conto proprio, ma su ordine di un regime che opera così contro un intero popolo.
Lei è stato uno dei volti della rivoluzione del 2011. Cosa fu piazza Tahrir?
Tahrir rappresenterà per sempre un momento puro di ritorno alla speranza, in cui pacificamente masse di persone superarono l’ordine sociale e il paradigma economico e religioso dell’epoca. Resterà per sempre un punto di speranza: l’Egitto può essere un posto migliore, uno Stato democratico moderno. Il 2011 ha aperto a milioni di persone spazio nella sfera pubblica. Abbiamo avuto una controrivoluzione ma non è stata in grado di uccidere la voglia di partecipazione: abbiamo 60mila prigionieri politici perché il regime non è capace di porre fine a quello spirito. Dopo il golpe del 2013, nel giorno dell’anniversario di Tahrir le persone si sono astenute anche dal parlarne, per sfiducia, disperazione e anche vergogna. Ma quest’anno per la prima volta dopo tanti anni, il ricordo è tornato: gli egiziani hanno pubblicato video, storie, racconti, dicendosi orgogliosi di essere stati presenti il 25 gennaio 2011.
Ha trascorso due anni e mezzo in custodia cautelare, fino al gennaio scorso. In quali condizioni vivono i prigionieri?
Sono stato arrestato come tutti gli altri da decine di soldati che hanno attaccato la mia casa dopo mezzanotte. Senza mandato, hanno confiscato i miei effetti personali, mai restituiti nemmeno dopo il rilascio. Sono stato fatto sparire, come tantissimi altri, in violazione del diritto internazionale, e portato in un luogo ufficioso, non è stato comunicato né alla mia famiglia né al mio legale. Lì ai detenuti è assegnato un numero, vengono bendati, ammanettati e appesi al muro per giorni, mesi, a volte anni. Conosco persone in sparizione forzata da anni. È qui che le torture vanno avanti ogni notte dalle 9 di sera alle 5 del mattino. Si divertono e basta, non interrogano i detenuti. Poi sono stato condotto in una prigione ufficiale, in una cella di 23 metri quadrati con un minimo di 18 altri prigionieri a un massimo di 32. Non avevamo spazio per dormire, dovevano fare a turno. Giorni e giorni senza uscire, con un bagno di 75 centimetri, un buco a terra con su una doccia d’acqua fredda, luoghi pieni di insetti e umiliazioni continue, senza visite familiari, con poco cibo. E senza nessuna procedura legale: sono rimasto in detenzione cautelare per due anni e mezzo, sotto interrogatorio, ma sono stato interrogato solo una volta tre giorni dopo il mio arresto per 45 minuti. Mi hanno chiesto solo cosa pensavo della rivoluzione e chi aveva votato come presidente. In Egitto non esiste un sistema legale, i servizi decidono chi arrestare e quando rilasciarlo. Ho visto persone poste in isolamento in celle di un metro per un metro e mezzo, buie, senza finestre, con un secchio da usare come bagno e una bottiglietta d’acqua. Ho visto amici morti lì per mancanza di cure mediche o folgorati dalla corrente elettrica perché i fili sono esposti. Sembrano prigioni del XVIII secolo.
E poi una grande quantità di bugie: in prigione c’era un grande cortile con una moschea e un enorme bagno, non siamo mai stati autorizzati a entrarci. È lo spazio che mostrano alle delegazioni internazionali che visitano la prigione. C’è una libreria in cui non siamo autorizzati a entrare. Cinque diplomatici europei, di diverse ambasciate, venivano alle mie udienze, hanno visto la farsa, l’assenza di prove e addirittura di accuse, hanno visto che il mio avvocato non poteva parlare e io non potevo partecipare. Nonostante ciò cooperano con quel regime. Nei miei ultimi giorni sono stato rapito dai servizi segreti. Mi hanno bendato e ammanettato e portato in una cella sotterranea per giorni prima di condurmi in aeroporto. A due celle di distanza c’erano una donna con tre bambini di tre, cinque e sette anni, sentivo le loro voci disperate. Non riuscivo a capire perché avessero portato una donna e tre bambini in un posto come quello. Ho provato a battere sui muri per dirle che potevo sentirla, ma la comunicazione era difficile.
In un’intervista, ha detto di aver visto il cambiamento nella tipologia di prigionieri politici: da una maggioranza di detenuti islamisti e di sinistra a cittadini comuni, spesso incarcerati per un post su Facebook o poco più.
La repressione riguarda ormai ogni cittadino. In prigione ci sono i familiari di ricercati: quando chi cercano o è già fuori dall’Egitto o non può essere detenuto, detengono un familiare, un amico o un collega. È una tattica da gangster. Dal 2020 è aumentato il numero di cittadini ordinari, non attivisti, arrestati perché durante un normale controllo il poliziotto trova nel telefono una battuta o un commento sui social contro il governo o anche solo un like a un post di critica. In carcere con me c’era un chirurgo, Walid: suo figlio di nove anni durante la ricreazione a scuola ha cantato una vecchia canzone usata per prendere in giro al-Sisi, soprannominandolo «dattero». L’insegnante ha chiamato i servizi e hanno arrestato il padre. Quel chirurgo è in prigione da due anni e mezzo ed è apparso di fronte alla corte con il nome del figlio e l’accusa di aver cantato una canzone durante la ricreazione. L’obiettivo è terrorizzare.
Il regime, una continuazione del precedente, ha imparato la lezione sbagliata dalla rivoluzione del 2011. Al-Sisi era capo dell’intelligence militare sotto Mubarak, era parte del Consiglio militare che ha represso le manifestazioni del 2011, era ministro della difesa sotto Morsi, fino al golpe. Invece di capire che la gente voleva libertà e giustizia sociale e riconoscere diritti e redistribuire la ricchezza, ha fatto l’opposto: la rivoluzione è stata fatta da attivisti, dunque arrestiamoli; è stata fatta dal movimento islamico, distruggiamolo; è stata fatta dalle ong, chiudiamole e impediamogli di avere finanziamenti; è stata fatta da partiti politici, costringiamoli a non organizzare più alcuna iniziativa per paura. In prigione ci sono persone dalle grandi città e dalle zone rurali e di diverse classi sociali, medici, imprenditori, disoccupati, operai, studenti. Il messaggio è: possiamo rovinarti la vita. E la gente così ha paura di parlare, di protestare.
Per essere liberato, ha dovuto rinunciare alla cittadinanza e cercare rifugio in Francia. Della stessa possibilità si parla per Alaa Abdel Fattah: rinunciare alla propria identità in cambio della libertà è considerabile un’estrema forma di prigionia?
Il messaggio è chiaro: o sei egiziano o sei libero. Io insisto per essere entrambi perché questo regime militare illegale non è la fonte della mia identità. La riotterrò, in un tribunale locale o internazionale o quando questo regime cadrà, ma sarò di nuovo egiziano. E lo stesso sarà per Alaa e per chi è stato deportato contro la propria volontà. Io sono anche palestinese e allo stesso modo non accetterò mai che sia l’occupazione israeliana a decidere se io lo sia o meno.
Lei è stato incarcerato con modalità identiche a quelle dei prigionieri politici palestinesi, la detenzione amministrativa. Da fondatore del Bds in Egitto, ha definito la sua lotta al regime egiziano e quella all’occupazione israeliana parte di un’identica causa.
Il dualismo occupazione-dittature ci governa da 50 anni: cooperano insieme, si coordinano, violano i diritti umani e il diritto internazionale. Crescono insieme e si supportano a vicenda. Quando sono stato arrestato mi è stato detto che la decisione era arrivata da tre paesi, Egitto, Israele ed Emirati arabi. Questa cooperazione regionale fondata su dittature e occupazione ha creato il caos nel mondo arabo. Israele non è solo un’occupazione o un regime di apartheid in Palestina, ma è un esportatore di estremismo in Medio Oriente. Per anni i regimi arabi hanno giustificato le rispettive dittature con l’opposizione a Israele, ma da tempo ormai ne sono aperti alleati. Ogni business che Israele ha in Egitto è legato a funzionari e ufficiali dell’esercito o dei servizi. È così anche fonte di corruzione dentro il regime egiziano.
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